Quando la dieta onnivora inquina più dei trasporti
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Se fino agli anni 80 il consumo regolare di carne era un lusso riservato a pochi, oggi la carne è considerata un alimento come tutti gli altri. Durante gli ultimi 50 anni, il costo di una nuova casa è aumentato di quasi il 1500%, quello di una macchina nuova di più del 1400%; ma il prezzo del latte è arrivato a solamente il 350%, e quello delle uova e del pollo non è neanche raddoppiato.
Oggi, grazie alla produzione industriale, le proteine animali hanno raggiunto il prezzo più basso in tutta la storia. Questa disponibilità a un prezzo così basso causa una produzione smisurata e non può non tener conto dell’impatto ambientale che questo iper-sfruttamento ha sul pianeta, sullo stesso pianeta in cui vivono persone che si preoccupano e che si mobilitano per ridurre il loro peso sulla Terra, la cosiddetta carbon footprint. La maggior parte delle persone crede che delle scelte a livello di trasporto o di non spreco delle risorse idriche, per citarne alcune, siano sufficienti affinché questo impatto si riduca. Forse, però, non tutti considerano il regime alimentare come una delle scelte più significative per la salvaguardia dell’ambiente. La produzione di carne e di prodotti di origine animale è responsabile del 18% dei gas a effetto serra, rispetto al 14% dei trasporti. Di questo 18%:
il 37% è responsabile delle emissioni di metano (CH4);
il 65% delle emissioni di protossido di azoto;
il 9% delle emissioni di diossido di carbonio.
Inoltre il 64% delle emissioni di ammoniaca provocate dalla produzione di carne e derivati contribuisce all’inquinamento dell’aria, del terreno e dell’acqua, alla formazione delle piogge acide e ai danni all’ozonosfera.
Oggi quasi 60 miliardi di animali sono utilizzati ogni anno per la produzione di carne, latte e uova. La FAO prevede che il consumo di carne e di latte raddoppierà tra il 2001 e il 2050. È importante da sapere che almeno il 50% della produzione di carne suina e più del 70% della produzione di carne di pollo provengono da un sistema industriale. Questo tipo di produzione ha un peso importante a livello di risorse naturali di terra e acqua, soprattutto per la coltura di foraggio per gli animali. Più del 90% della produzione mondiale di soia e il 60% di mais e orzo sono destinati agli animali da macello. La deforestazione è una conseguenza diretta di questo tipo di iper-sfruttamento del terreno: il 70% delle terre che prima erano delle foreste adesso sono state convertite a pascoli.
Allevamento e deforestazione. Le conseguenze ambientali dell’allevamento sono numerose e di diversa natura. Una delle più inquietanti riguarda la deforestazione. In che misura l’allevamento favorisce la deforestazione? Il collegamento più evidente riguarda le zone destinate all’allevamento. Durante gli anni 90, la superficie mondiale totale delle foreste si è ridotta ogni anno di 9,4 milioni di ettari (circa tre volte il Belgio). La deforestazione legata a un pascolo estensivo è un fenomeno frequente nell’America centrale e del Sud: in America centrale la superficie delle foreste si è ridotta di quasi il 40% nel corso degli ultimi quattro decenni, con una rapida crescita di pascoli e bestiame bovino nel corso dello stesso periodo. Ciononostante anche in America del Nord i dati sono preoccupanti: il 90% delle praterie sono state convertite in terre coltivate e urbanizzate, lo stesso per l’80% del Cerrado dell’America del Sud.
Oltre alle zone destinate agli allevamenti, esiste un altro legame tra allevamento e deforestazione: la produzione del foraggio per gli animali. Questo provoca dei danni non solo a livello di deforestazione pura e semplice, ma anche a livello di inquinamento dell’atmosfera e di biodiversità. Il dissodamento delle foreste per il pascolo o la produzione di foraggio libera più CO2 che tutta l’attività legata all’allevamento, portando all’estinzione di numerose specie animali e vegetali ogni anno.
Purtroppo la situazione non va che peggiorando: le proiezioni relative alle culture suggeriscono che sarà necessario un’espansione delle terre coltivate di 120 milioni di ettari da qui al 2030, mentre le zone urbane continueranno a estendersi in modo considerabile. Una grande parte di queste terre supplementari dovrà provenire dalla deforestazione.
L’allevamento intensivo e la soia esportata come alimento del bestiame sono la prima causa della deforestazione secondo Alain Karsenty, economista al Centro della Cooperazione Internazionale per lo Sviluppo e esperto presso la Banca Mondiale. Dopo un’inchiesta di 3 anni pubblicata nel giugno 2009, Greenpeace afferma che l’allevamento bovino è responsabile dell’80% della distruzione della foresta amazzonica.
L’Unione Europea, la cui superficie delle forteste sta aumentando, è il quarto importatore di bovini dietro agli Usa, la Russia e il Giappone. Inoltre l’80% delle importazioni di bovini dell’Unione Europea viene dall’America del Sud. La Francia è il primo consumatore europeo di carne bovina. In questo modo il consumo di carne in Europa e in Francia è responsabile della deforestazione in America del Sud.
L’inquinamento causato dai rifiuti organici degli animali. Un altro grave problema associato all’allevamento è la cattiva gestione delle deiezioni animali. Attualmente i due terzi degli inquinanti azotati hanno come origine le attività agricole tra cui l’allevamento intensivo. Secondo il CNRS (il corrispettivo dell’Istat francese), in Francia la presenza di nitrati (quindi di azoto) nelle acque continentali proviene per il 66% dall’agricoltura, come conseguenza dello spandimento di dosi massicce di concimi azotati e di liquami.
Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), le stalle, le centrali del latte e lo stoccaggio del letame costituiscono le principali fonti di emissione di ammoniaca e di perdita di minerali nel suolo, nelle acque sotterranee e nelle acque di superficie. Si distinguono due tipi di ammoniaca: una non ionizzata, e l’altra, la più pericolosa, ionizzata. Quest’ultima è la più tossica per gli organismi acquatici ed è il risultato della decomposizione chimica o batteriologica o della mineralizzazione delle deiezioni animali. Quando il letame è esposto all’aria l’ammoniaca fuoriesce, e più importante è l’esposizione (a livello di grandezza e di durata), più la quantità di ammoniaca fuoriuscita aumenta. Il deflusso di acqua in superficie proveniente dalla pulizia, dalla pioggia, le zone di impiego e le stalle possono costituire delle fonti considerabili di inquinamento. Una delle conseguenze dell’ammoniaca fuoriuscita dai rifiuti è la sua trasformazione in piogge acide.
Più concretamente queste emissioni di ammoniaca possono portare ad un aumento di azoto e di cambiamenti di specie vegetali negli ecosistemi naturali terrestri o l’eutrofizzazione dei sistemi acquatici.
Il bestiame e i rifiuti dell’allevamento emettono dei gas. Alcuni di questi, come l’ammoniaca, restano localizzati, ma altri, come il diossido di carbonio, il metano e gli ossidi nitrosi contribuiscono al riscaldamento globale.
Ogni anno 500 milioni di tonnellate di metano vengono liberate nell’atmosfera in seguito alla decomposizione di sostanze organiche a riparo dell’aria (zone paludose, discariche, stomachi di ruminanti) e all’emissione emanata per l’estrazione del carbone, del petrolio e del gas naturale. Un solo ruminante riversa ogni giorno 120 litri di metano nell’atmosfera, contribuendo in modo sostanziale all’effetto serra.
Gli ossidi nitrosi e il metano emessi ostacolano l’isolamento di una parte di CO2: l’effetto positivo dei pozzi di carbonio naturali è praticamente annullato. Gli ecosistemi terrestri europei emettono quindi più gas a effetto serra di quanto riescono ad assorbirne.
Secondo un rapporto pubblicato dalla FAO nel 2006, “l’allevamento intensivo è uno dei primi responsabili dei problemi ambientali”. Il contributo dell’allevamento al riscaldamento climatico è più elevato di quello del settore dei trasporti. Questa attività è responsabile del 65% delle emissioni di ossido di diazoto, un gas dal potenziale di riscaldamento globale 296 volte più elevato di quello dell’anidride carbonica. Inoltre il bestiame produce il 37% delle emissioni di metano legate alle attività umane. Questo gas, prodotto dal sistema digestivo dei ruminanti, agisce 23 volte di più dell’anidride carbonica sul riscaldamento.
Il rapporto di Foodwatch illustra l'effetto sul clima di tre tipi di diete alimentari. Un'alimentazione senza prodotti animali emette da 7 a 15 volte meno gas a effetto serra rispetto a un'alimentazione che contiene carne e latticini.
Fonti:
Jonathan Safran Foer, Se niente importa
http://www.fao.org/
Global Warning: Climate Change and Farm Animal Welfare, a report by Compassion in World Farming, 2009
"Élevage et environnement" in La situation mondiale de l'alimentation et de l'agriculture, 2009, FAO