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Prevenire le guerre giuste per evitare paci sbagliate

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I motori della carovana bellica già ruggiscono. Dinanzi al rumore assordante dell'ennesima guerra giusta bisogna osare l'Europa.

Tra pochi istanti il pianeta sarà pronto ad assistere all’ennesima “guerra giusta”, i motori della carovana bellica già ruggiscono in attesa che si alzi il sipario sul teatrino iracheno.

Il grande interrogativo che oggi assilla quasi tutti gli abitanti della terra è se questo intervento sia giusto, inevitabile, quali conseguenze comporterebbe sull’equilibrio mondiale e soprattutto se sussistano le possibilità per una via alternativa all’attacco militare.

Credo che nessun essere umano possa oggi guardarci dritto negli occhi e dare una risposta piena e totale a questi dubbi, che pesano come macigni sulle dita di coloro che dovranno decidere se premere o meno il grilletto. Quello che stiamo vivendo non è un film in bianco e nero dove si ha una visione manichea, anche se in tanti tentano di mandare in onda questo spettacolo. Tantissime sono le cose che si potrebbero dire ed infinite le angolature da cui poterle analizzare.

Onestamente a volte l’impiego della forza è inevitabile, esiste un punto oltre al quale non si può andare, attraversato questo il conflitto diventa quasi "obbligatorio". Però resta arduo comprendere “dov’è fin là”. Dove si trova la sottile linea rossa.

Il “falco” statunitense ed il suo “canarino” inglese spingono per un intervento quasi immediato ritenendo che marzo 2003-gennaio 2004, date in cui l’UNSCOM prevede di terminare l’ispezioni e successivo disarmo, sia troppo tardi e che Saddam Hussein per allora disporrebbe già di un arsenale nucleare . Il resto del pianeta invece spinge per ispezioni immediate. "Dovranno" comprendere se si può ancora evitare un conflitto ragionando quindi in un'ottica temporale, e non solo spaziale, per capire quanto lontana o vicina si trovi quella sottile linea rossa. E capire cosa fare dopo il conflitto. Come insegnò Michael Collins, rivoluzionario irlandese: “E' molto più difficile ricostruire quando i cannoni tacciono”.

Purtroppo credo che queste elucubrazioni siano oggi poco utili e come sempre siano giunte in ritardo quindi preferisco parlare d’altro, delle contraddizioni di questo conflitto, delle occasioni perse e della necessità vitale di trovare vie alternative alle armi.

Tutti i maggiori disastri che hanno insanguinato il nostro presente erano annunciati e poco si è fatto per evitarli. Abbiamo aperto gli occhi quando ormai era tardi. Li abbiamo aperti su ground zero, oppure quando minoranze etniche venivano già massacrate in Yugoslavia. Li apriamo solamente quando due popoli sono già sommersi nella loro missione di sterminio reciproco. E a volte non ci siamo nemmeno degnati di aprirli. Oggi ancora una volta siamo pronti a perderci nell’ennesimo labirinto delle malvagità.

Troppo spesso si parla di guerre giuste e assai poco di paci sbagliate ovvero di cosa fare quando cessano le ostilità. L’embargo imposto dagli Stati Uniti all’Iraq dopo la guerra nel golfo ha accompagnato più di un milione e mezzo di persone nella tomba di cui più di 700.000 mila di questi erano bambini. Nonostante le autorità statunitensi definirono “intelligenti” le sanzioni (perché limitate solamente ad alcuni settori) il numero di vittime per malattie e malnutrizione è in continua crescita. L’obiettivo dell’embargo era di rovesciare il regime iracheno e se oggi si discute di un nuovo intervento bellico si può concludere dicendo che il sistema di sanzioni sia stato fallimentare ed abbia solo tolto il respiro a degli esseri umani segnandone maledettamente il destino in modo, lasciatemelo dire, “stupido”.

Sperando di non perdermi in una spirale vorrei parlare del terreno che precede la sottile linea rossa evidenziando che è li che si può prevenire un conflitto ed è li che si può combattere un regime autoritario e difendere i diritti umani.

Gli Stati Uniti accusano oggi l’Iraq e Saddam Hussein di possedere armi chimiche e batteriologice, di essere in procinto di ultimare la costruzione di armi nucleari, di usare gas nervino contro la sua stessa popolazione, di calpestare i diritti della popolazione Curda e di non aver permesso l’ingresso nel proprio territorio agli ispettori ONU (oggi questo capo d’accusa “sembrerebbe” non sussistere più). Tutte queste accuse sono valide e sono mali da combattere, anche con la forza, se necessario e se minacciano la sicurezza internazionale o siano in contrasto con degli elementari diritti umani.

Ma ho delle domande da porre e delle contraddizioni da evidenziare. Se l’impiego di armi chimiche e batteriologice è oggi ritenuto così infame dall’amministrazione Bush, perché non sono state ratificate dal suo paese la convenzione sullo stoccaggio di armi batteriologice del 1999, la convenzione contro l’uso di armi chimiche del 1993, il trattato per la messa a bando di test nucleari del 1996, perché non hanno voluto inserire le mine anti-uomo tra le armi da bandire? Perché non hanno voluto un accordo internazionale sulla limitazione delle piccole armi? Le armi proprie sono, forse, meno dannose? Lo slogan di una nota società di armi americana recita che non sono le pistole ad uccidere gli uomini ma gli uomini ad uccidere gli uomini. Forse questo è vero, soprattutto se riflettiamo sulla guerra in Ruanda dove migliaia di uomini sono morti massacrandosi con dei maceti ma sono ancor più convinto che “limitare” le armi non sia un atto così deplorevole. Gli Stati Uniti invece spendono 379 milioni di dollari all’anno nella produzione d’armi, un investimento superiore ai 14 successivi paesi e pari al 40% della spesa mondiale.

Più volte si è sottolineato come Saddam uccida i propri cittadini e più volte si è posto l’accento su quanti di questi assassinati siano bambini. Il presidente statunitense dimentica forse le immagini dei figli di soldati americani nati deformati, e forse non ha visto le immagini di bambini iracheni che sono nati con gli stessi infami segni, perché suo padre decise di impiegare chissà quali armi. Si dimentica forse che la presidenza Reagan permise all'Iraq di utilizzare armi chimiche nel conflitto con l'Iran negli anni '80. Un atto becero resta tale a prescindere da chi preme il grilletto. Se all’amministrazione Bush interessasse realmente il destino dei minori che popolano la terra avrebbe potuto ratificare la carta universale del fanciullo per la protezione dei diritti universali dei bambini. Tanto si è parlato in questi gironi di diritti umani ed anche in questo caso avrei qualche interrogativo da porre: perché gli Stati Uniti non ratificano un loro ingresso nella corte penale internazionale? Perché in ogni conflitto non viene rispettato lo ius in bello? I diritti della popolazione civile dei paesi bombardati sono forse di seconda classe?

I punti che ho tentato di stabilire attraverso queste domande sono molto semplici. I grandi della terra che hanno nelle loro mani il potere decisionale hanno più responsabilità. Questa responsabilità deve tramutarsi nella nascita di un diritto internazionale forte ed efficace e in uno sforzo comune per capire come renderne possibile un'attuazione concreta. Si ha la necessità di andare oltre i tribunali ad hoc, agli interventi scelti in modo chirurgico e l’ONU non può essere solamente l’assemblea dei dibattiti. Bisogna costruire una struttura capace di prevenire un conflitto, che sia solida nel lungo periodo e che soprattutto siano coloro che hanno più responsabilità ad implementarla e poi a rispettarla. Ovviamente le convenzioni citate potenzialmente potrebbero restare dei pezzi dei carta ma, poco si è fatto per attuarli. Trovare un modo per implementarli dev’essere il compito degli attori internazionali. Forse è ormai tardi per evitare un conflitto in Iraq ma, bisogna finalmente trarre un insegnamento da questa imminente tragedia comprendendo la necessità di una struttura reale di conflict prevention. Tale implementazione non sarebbe solo etica ma anche realismo politico. Non si può passeggiare ciechi, ignorando volontariamente i drammi, fino ad inciampare sulla sottile linea rossa che ci obbliga ad aprire gli occhi e ritrovare sempre dinanzi ai nostri sguardi barbarie, morte, tragedie e piogge di missili. Rimodellare il sistema internazionale non è certamente facile, come odiare sia certamente più facile che dialogare, però farlo è un obbligo, non solo morale. E’ talmente evidente la necessità vitale di questi cambiamenti che la difficoltà non è una buona ragione per restare inermi. L’immobilità è invece purtroppo ciò che si respira nell’atmosfera oggi e il dubbio che siano gli interessi economici, strategici e di geopolitica a muovere i fili dei decision takers è tristemente vivo. L’Europa in questo cambiamento può e deve giocare un ruolo di primo ordine. Può e deve dare una scossa all’immobilità. Il sistema internazionale oggi è solamente costituito un’unica mono-potenza, l’Europa deve rompere questo equilibrio unilaterale e diventare una voce che abbia qualcosa da dire. Si deve andare oltre lo “spessore” dei discorsi che attualmente si sentono nella aule parlamentari del vecchio continente dove ci si limita ad essere favorevoli o contrari ad un attacco americano. Si deve avere una posizione propria e trovare i modi per attuarla. Naturalmente costituita anche da alleanze, il mio non è un invito all’isolazionismo bensì la speranza di vedere un diverso e necessario equilibrio internazionale e un’Europa motore di questo cambiamento. L’Europa deve dare ossigeno a questi cambiamenti ed ha una grande occasione per contare di più ma, per contare di più deve fare di più.

In una frase, si deve osare l’Europa.