Presidenziali in Tunisia. Mounir Baatour: «Il partito di Dio non esiste»
Published on
- it
Mounir Baatour, 48, è avvocato e presidente di SHAMS, un’associazione che si batte per i diritti della comunità LGBTQI+ e la depenalizzazione dell'omosessualità in Tunisia. A fine agosto, la Commissione elettorale del Paese ha rigettato la candidatura di Baatour (a nome del Partito liberale tunisino) alle elezioni presidenziali che si terranno il 15 settembre prossimo. Per diverse settimane, il suo volto ha fatto il giro dei media internazionali, in quanto primo candidato apertamente omosessuale. Una petizione su change.org accusa Baatour e SHAMS di aver violato i diritti di minori e la privacy di persone LGBQTI+. Intervista.
Sig. Baatour, perché la Commissione elettorale ha rigettato la sua candidatura, nonostante avesse raccolto 19mila firme, a fronte delle 10mila richieste?
Per un vizio di forma.
Sarebbe a dire?
Abbiamo raccolto le firme su un formulario che non era in linea con quelli richiesti ufficialmente dalla Commissione. E quindi non sono state considerate valide.
Pensa che ci siano altre ragioni dietro a questa bocciatura?
No, non penso.
Lei è stato molto esposto nei media internazionale per essere il primo candidato alla Presidenza apertamente omosessuale in Tunisia. Il baccano mediatico ha portato qualcosa alla sua causa?
Sì. Altri candidati sono stati obbligati a esporsi sulla situazione della comunità LGBTQI+ nel Paese. Alcuni hanno affermato di voler abolire l’art. 230 del codice penale (il quale prevede fino a 3 anni di detenzione per il reato di omosessualità, nda.). Il tema ora fa parte del dibattito pubblico e politico.
Appoggerete altri candidati quindi?
Sì, ma non abbiamo ancora deciso quali.
Eppure, lei ha affermato che la causa LGBTQI+ non sarebbe stato il perno della sua campagna. Perché?
Avrei messo al centro i problemi di tutti i cittadini tunisini. La comunità LGBTQI+ rappresenta effettivamente una minoranza.
Quali sarebbero questi temi dunque?
L’economia, la povertà, la disoccupazione, la sanità pubblica, l’ecologia, l’educazione e altre questioni sociali. In breve: tutto le problematiche rispetto alle quali un candidato serio alla Presidenza dovrebbe prendere una posizione.
Ma se dovesse scegliere una priorità per la Tunisia di oggi, quale sarebbe?
La lotta alla disoccupazione.
Come risolverebbe il problema?
Ho proposto di sostituire il Dinaro tunisino per far rientrare nelle banche la grande massa di denaro in circolazione legata all’economia nera. Ciò permetterebbe di tassare le attività che hanno evaso. E con le nuove risorse sarebbe possibile realizzare delle politiche attive sul mercato del lavoro.
In un’intervista rilasciata a Euronews, ha affermato che lei ha un problema con i partiti islamisti (Ennahda). Può spiegarci perché?
Perché pretendono di essere il partito di Dio. Ma com’è ben noto, Dio non ha dato alcun mandato ai partiti politici. Ennahda cerca di approfittare del sentimento musulmano e conservatore del popolo tunisino, affermando: ‘votate per chi crede in Dio’. Non è un atteggiamento democratico quello che amalgama religione e politica a fini elettorali.
Lei ha anche affermato che Ennahda non rispetta le regole del gioco democratico. In che senso?
È un partito che utilizza la democrazia per arrivare alla vittoria, ma che è pronto a rivoltarsi contro la democrazia stessa, una volta al potere.
Su change.org è stata pubblicata una petizione che accusa lei e la sua organizzazione, SHAMS, di aver infranto la legge commettendo reati gravi, come la violazione di minori e della privacy delle persone LGBTQI+ (allo stato attuale, la petizione ha raccolto circa 300 firme su un obiettivo di 500, nda.).
La petizione è stata firmata in gran parte da persone che non hanno rilasciato il loro nome. E le associazioni che la sostengono non sono veramente organizzazioni che difendono la comunità LGBTQI+.
Come fa a dirlo?
Non sono riconosciute dallo Stato.
Il che in Tunisia …
Nessuna organizzazione menziona la causa LGBTQI+ nei rispettivi statuti.
Le accuse però sono gravi.
Le accuse che mi vengono mosse sono perseguibili penalmente. Se qualcuno ha delle prove, dovrebbe appellarsi agli organi e alle istituzioni competenti. Non è attraverso le petizioni che si ottiene giustizia.
Che interesse avrebbero, dunque, queste persone e organizzazioni a infamarla?
Sono delle persone che cercano di approfittare della causa LGBTQI+ per altri scopi.
Quali?
Si tratta di organizzazioni anti-israeliane, antisemite, seguaci di Nasser. Mi attaccano perché perseguo la pace con Israele. Io ho sempre sostenuto di volere un'intesa secondo gli accordi del 1967, uno scenario che preveda l’esistenza di uno stato palestinese indipendente e sovrano. Ma queste organizzazioni vogliono ancora “buttare a mare Israele”, come si diceva negli anni ‘60. Lo scontro sulla questione israeliana è il principale nodo.
Nella petizione si accusa SHAMS di perseguire strategie di outing forzate e di violare la privacy delle persone omosessuali mettendole in pericolo.
Che indichino il nome di una singola persona che abbiamo messo in pericolo. La strategia di SHAMS è quella di denunciare le persecuzioni e gli arresti delle persone LGBTQI+ in Tunisia. E siamo obbligati, nel quadro della nostro attivismo, di dare conto delle circostanze in cui vengono perpetuati gli arresti e le persecuzioni, per esempio: il luogo dei fatti, le ragioni addotte dalle autorità e dati generici riguardo le persone coinvolte. Ma non abbiamo mai citato un singolo nome.
Nel 2013, lei è stato condannato per “sodomia” per aver intrattenuto un rapporto sessuale con un minore di 17 anni e ha passato 3 mesi in carcere. Come è cambiata la sua vita?
La prigione è stata un’esperienza difficile: ti segna a vita. Le condizioni di un carcerato sono dure. Io ho vissuto in una cella di 8 metri quadri con altre 8 persone. Ho sofferto di depressione e sono stato trattato nel reparto di psichiatria. Una volta uscito, ho combattuto con la depressione per un altro anno circa. È stata un’esperienza difficile, catastrofica.
In funzione dell’art. 230, come agiscono concretamente sul terreno le autorità tunisie?
Ci sono persone note per essere omosessuali. Vengono sorvegliate. La polizia entra di notte nelle abitazioni per cogliere i sospetti “in flagrante”. Altrimenti, può accadere che vengano sequestrati telefoni e computer per trovare prove di altro tipo, come foto e conservazioni intime private. Inoltre, dire che l’art. 230 prevede fino a 3 anni di carcere, è un’ipocrisia.
In che senso?
Una persona omosessuale non cambia orientamento sessuale dopo essere stato in prigione. Questo vuol dire che, verosimilmente, tornerà ad essere un detenuto prima o poi. In buona sostanza, ciò vuol dire che l’art. 230 rappresenta una condanna a vita.
Può darci un’idea del numero di persone coinvolte in questo tipo di azioni?
Nel 2018, in Tunisia, sono state arrestate e condannate per il reato di omosessualità 128 persone.
Ha assistito professionalmente persone che hanno subito questo trattamento?
Sì.
Quali sono le difficoltà che ha incontrato da un punto di vista professionale e le strategie che utilizza in aula?
Gran parte dei giudici di questo Paese sono islamisti. In qualità di avvocato, si fa leva sul tipo di procedura messa in atto durante i sequestri: il mancato rispetto dei diritti delle persone; oppure vizi procedurali, per esempio: la mancata autorizzazione delle autorità giudiziarie per violare la privacy di un domicilio. Ma spesso serve a poco.
Secondo un sondaggio dell’Arab Barometer Institute, citato dalla BBC e da Deutsche Welle, soltanto il 7 per cento della popolazione tunisina sostiene che l’omosessualità sia accettabile: la percentuale più bassa in tutto il Maghreb. Come se lo spiega?
Non credo che il sondaggio rispecchi la verità dei fatti. Una maggioranza dei cittadini di questo Paese non vuole pronunciarsi per le pressioni sociali.
Come fa a dirlo?
Perché soltanto la percentuale delle persone omosessuali in Tunisia è dell’11 per cento.
Ciò non toglie che da molti cittadini e politici, l’omosessualità sia vista come una malattia …
A questi cittadini e politici rispondo: mettereste dunque in prigione anche chi ha un problema cardiaco? Altrimenti, che tirino fuori questa cura miracolosa per la nostra presunta malattia: saremo pronti a sostenere la loro candidatura al Nobel per la medicina ...
Sarcasmo a parte, com’è cambiata la Tunisia negli ultimi anni a partire dalla rivoluzione?
La situazione del Paese è migliorata in termini di libertà civili, politiche, di stampa e di opinione. Ma è peggiorata in termini economici e sociali: la disoccupazione e la povertà sono aumentate e la condizione delle aziende non è buona.
C’è stata una regressione rispetto all’epoca di Ben Alì?
Da un punto di vista economico, sì.
E per quanto riguarda la condizione della comunità LGBTQI+, ci sono stati passi in avanti?
Niente affatto. La situazione è peggiorata rispetto a prima della rivoluzione. Il numero di arresti, persecuzioni e condanne è aumentato.
Uno scenario abbastanza sconcertante ...
Almeno però, esiste finalmente un’associazione riconosciuta dallo Stato, SHAMS, che si occupa di difendere i diritti di questa comunità e che può indirizzare il dibattito pubblico.
Per i cittadini europei è difficile comprendere come la situazione possa essere peggiorata. Ce lo spieghi.
A mio avviso, la ragione è una solta: i partiti islamisti che hanno condiviso il potere governativo.
L’Unione europea sostiene la causa di SHAMS?
L’Unione europea ci sostiene, ma non finanziariamente. Nel maggio 2019, ci sono state diverse iniziative e documenti promossi anche da SHAMS, in cui si domandava al governo tunisino di smettere di perseguitare le persone omosessuali, condurre il test anale e infrangere la privacy delle persone.
Più in generale, valuta in maniera positiva l’impatto dell’Ue in Tunisia?
Sì, presumo che che abbia un impatto positivo.
A livello di Paesi membri dell’Unione, ci sono alcuni che sono più vicini alla vostra causa?
A parte la Francia, vanno menzionati Svezia, Finlandia, Spagna, Germania e i Paesi Bassi.
Come interagite con i governi o le organizzazioni della società civile di questi Paesi?
Le relazioni passano spesso per altre organizzazioni non governative di questi Stati. Ma non solo. Per esempio, il governo olandese ha finanziato la nostra radio di comunità: radio SHAMS.
Nel suo programma (Partito liberale tunisino), una delle misure chiave è una modifica della Costituzione che darebbe più poteri al Presidente della repubblica. Non è una mossa azzardata in un Paese così fragile?
No, perché agirebbe comunque sotto il controllo del Parlamento. Il popolo tunisino è abbastanza maturo per difendere la democrazia. In questo Paese abbiamo fatto una rivoluzione. Tutti comprendono il gioco politico ormai.
Ma non si rischia di tornare verso un modello autoritario?
Quello che propongo è un modello simile a quello degli Stati Uniti, in cui il Presidente ha dei poteri che sono ben delimitati dal Congresso.
Quali nuovi poteri dovrebbe avrebbe il Presidente (attualmente, il Presidente della repubblica tunisina è responsabile della politica estera del Paese, nda.)?
Dovrebbe poter intervenire nella nomina dei ministri e nelle politiche economiche e sociali che interessano i cittadini. Considerato che è eletto a suffragio universale, non è normale che i suoi poteri siano limitati come ora. Nel caso italiano, tutto ciò ha un senso visto che il Presidente è eletto dal Parlamento.
Dopo le elezioni presidenziali, verranno quelle legislative. Qual è la strategia del Partito liberale?
Il partito liberale presenterà le proprie liste in tutte le 21 circoscrizioni del Paese con lo stesso programma valido per le presidenziali.
Uno dei nodi fondamentali del dibattito tunisino è l’accordo di libero scambio in fase di negoziazione con l’Unione europea (DCFTA in inglese, o ALECA in francese, nda.). Qual è la vostra posizione?
Siamo a favore del DCFTA in tutti i settori, tranne che per quello agricolo. L’economia tunisina non reggerebbe il colpo e la concorrenza europea o mondiale. Abbiamo ancora bisogno di barriere doganali in questo settore.