Piergiorgio Rosetti: la pace come strumento di politica
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Volontario in Palestina, Rosetti vive con la paura e la voglia di costruire infrastrutture intellettuali per la pace. Mentre nel Paese aumenta la tensione per le elezioni del 25 gennaio, lui suggerisce una soluzione: i corpi civili di pace europei.
Piergiorgio Rosetti ha trentuno anni, gli ultimi due trascorsi in Palestina vivendo a stretto contatto con la popolazione dei territori occupati. Ha trascorso le vacanze di Natale nella sua casa in Italia e café babel è stato suo ospite. Casa Rosetti: Piergiorgio, la sua ragazza Kristine e suo fratello Riccardo ci hanno atteso con un’eccellente cena in tavola.
Paura e ospitalità
«Pensavo mi avrebbero tagliato la gola: ma non è andata così»: avevo tanta paura quando ho messo piede in Palestina nel 2003. Ma presto scopri, spiega Piergiorgio Rosetti durante la nostra cena, che «anche gli esponenti dei partiti più estremisti non sono come te li aspettavi e l’ospitalità della gente è la prima cosa che ti conforta». Finita la cena, il nostro incontro può proseguire in pieno relax. Rosetti è un volontario di Operazione Colomba, un corpo nonviolento di pace attivo in diverse zone di guerra, dal Kosovo al Chiapas. Passando per Israele e la Palestina, ovviamente. In qualità di caschi bianchi svolgono una continua opera di supporto, documentazione e informazione della vita quotidiana nei territori occupati e Rosetti tiene a precisare che «in tutti i conflitti la presenza di civili internazionali evita violenze molto gravi perché i militari sono obbligati a comportarsi in maniera più umana». I suoi numerosi racconti di vita quotidiana non smettono di denunciare gli episodi di violenza subiti dai palestinesi: avvelenamenti dei pascoli, minacce, pestaggi, piccole angherie di tutti i giorni. «Purtroppo», aggiunge severo, «i soldati israeliani che dovrebbero garantire la sicurezza di tutti gli abitanti della Cisgiordania – coloni, palestinesi, civili internazionali – spesso non lo fanno». A ciò si aggiunge la costruzione del muro, il cui tracciato passa in molti punti sui territori palestinesi e che «togliendo terra e abbattendo gli ulivi dei contadini rende ancor più precaria la già difficile vita dei palestinesi».
Vivere separati, provare a ritrovarsi
Rosetti appare molto rilassato ma s’infervora quando racconta, è un fiume in piena di episodi. Dalla ripresa della seconda intifida le condizioni di vita sono peggiorate: i coloni e i palestinesi vivono separati. Le colonie sono recintate ed è proibito l’ingresso ai palestinesi, mentre ai coloni è fatto divieto di entrare nei territori palestinesi. «Esiste un mercato nero del lavoro che permette un minimo di contatto, ma», aggiunge lucido, «tendenzialmente ognuno vive la sua vita». Eppure c’è anche chi prova a condividere le sofferenze della guerra. Una storia alla quale tiene particolarmente è quella del Parents circle, un’associazione che raggruppa più di cinquecento famiglie israeliane e palestinesi con un triste denominatore comune: un parente ammazzato durante il conflitto. Ma in comune hanno anche un nobile obiettivo: mettere da parte l’odio per intraprendere una strada fondata sul dialogo e la comprensione reciproca.
Mi chiedo come le due comunità percepiscano la presenza dell’Unione Europea e Rosetti sembra avvertire un’assenza: «i coloni, esclusi quelli estremisti che costituiscono la minoranza, riconoscono nell’Ue un mercato importante per i prodotti agricoli israeliani, mentre i palestinesi sanno che è la loro maggiore fonte di aiuto economico». Oltre alla dimensione economica si avverte comunque una «mancanza di strategia geopolitica, un progetto concreto» da parte dell’Unione Europea. L’ora è tarda e la stanchezza si fa sentire, ma andiamo avanti ancora un po’.
I corpi civili di pace europei per la cooperazione
Spesso la presenza dei pacifisti nei territori di guerra viene criticata. A volte ne vengono messe in dubbio le motivazioni e vengono dipinti come spinti dalla ricerca di avventure e in fuga da società dove si sentono a disagio. «Cos’è che ti ha spinto a partire?», chiedo a Rosetti. «La spinta morale è stata una molla importante, ma questa si sarebbe ridotta a solidarietà momentanea se non mi fossi reso conto della necessità di una rivoluzione culturale da opporre ad un’ottica ottocentesca. Tra la guerra e la diplomazia occorre prevedere l’intervento non armato nelle zone teatro di conflitti». Per Rosetti, infatti, i corpi civili di pace europei devono diventare strumenti di politica estera, e insiste sulla loro capacità di adattarsi alle diverse situazioni e di sviluppare microprogetti di cooperazione. Inoltre, nelle zone di guerra «agli occhi del personale di formazione civile, certi comportamenti da parte dei militari nei confronti degli abitanti risulta incomprensibile e ingiustificabile. Viceversa osservatori di formazione militare sviluppano comportamenti psicologici di solidarietà e giustificazione che vanno a discapito dei più deboli che patiscono le conseguenze del conflitto». Il pensiero corre ad Alexander Langer, di cui Rosetti è estimatore. Langer è stato Presidente della delegazione del Parlamento Europeo per i rapporti con l'Albania, la Bulgaria e la Romania e ha sempre sostenuto l’idea che i corpi civili di pace possono calmierare le dinamiche violente nei conflitti di matrice etnico-religiosa meglio delle tradizionali operazioni di peace keeping. «L’idea che corpi civili professionali possano essere usati come strumenti di politica estera che si sostituiscono ai militari può dar fastidio», ma è fondamentale per mettere al centro dell’azione la tutela dei civili in zona di guerra, sottolinea Rosetti. Che ritiene che il Parlamento Europeo si sia ultimamente dimostrato più lungimirante che in passato, avendo in più occasioni affrontato il tema dei corpi civili, e auspica che si vada sino in fondo.
A forza di parlare la notte è calata e anche il nostro post-brunch volge al termine. Le discussioni intorno ai corpi civili di pace proseguono e la Costituzione europea congelata prevederebbe l’istituzione di un corpo volontario europeo di aiuto umanitario. Se poi si andrà sino in fondo non ci è dato saperlo.