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Piccoli mediattivisti crescono

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Default profile picture diego galli

Blog, enciclopedie e video juke-box, sono fenomeni che stanno rapidamente cambiando il panorama dell’informazione mettendo sempre più in discussione le regole del giornalismo tradizionale. Non solo di quello scritto.

Nell’epoca dei grandi conglomerati mediatici – per citarne alcuni, la News Corporation e la Disney in America, la Bertelsmann e Mediaset in Europa - l’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, fino a qualche anno fa, sembrava riguardare solo le poche persone in grado di controllare i mezzi di comunicazione di massa.

Con passo celere però, internet sta determinando un incredibile cambiamento di potere in favore del pubblico.

Blog e giornalismo

Il giornalismo non è uno status quanto un’attività e in quanto tale può essere svolta da chiunque ne abbia le capacità e ne segua le regole. È di questo avviso l’autrice del “manuale del blog”, Rebecca Blood: “quando un blogger scrive resoconti quotidiani da una conferenza internazionale, come ha fatto David Steven dal Summit mondiale per lo sviluppo sostenibile del 2002, si tratta di giornalismo. Quando un editorialista manipola i fatti per creare una falsa impressione, no.”

La grande questione da affrontare è come i blog stanno cambiando il giornalismo. La risposta più calzante è quella data attraverso un’efficace metafora da Tom Curley, il direttore dell’americana Associated Press: “Come abbiamo potuto vedere chiaramente nell’ultimo anno, i consumatori vorranno utilizzare la natura interattiva di internet per partecipare direttamente allo scambio delle notizie e delle idee. L’informazione come lezione sta lasciando spazio all’informazione come conversazione”.

I primi segni di questa influenza si fanno già vedere. Dalla BBC che invita i suoi utenti ad inviare immagini amatoriali scattate durante le manifestazioni contro la guerra in Iraq, al sito di MSNBC che invita i lettori coinvolti direttamente da alcune questioni di attualità a raccontare le proprie storie. Dal sito di Le Monde che offre ai suoi elettori la possibilità di aprire un blog, al Ventura County Star, che riporta su un blog la discussione che avviene ogni giorno in redazione per confezionare il quotidiano del giorno dopo, consentendo ai lettori di intervenire attraverso i commenti.

Non solo blog

Il declino della credibilità dei mass media tradizionali è un fattore centrale nella spiegazione del successo del giornalismo partecipativo tanto quanto la disponibilità, a basso costo, di nuovi strumenti tecnologici che consentono l’interattività.

Con la diffusione a livello di massa di strumenti come telecamere digitali, cellulari con videocamera e dei software per l’editing del video, la frontiera del giornalismo partecipativo si sta spostando anche verso la produzione di contenuti audiovisivi. Qui la strada è stata aperta da Indymedia, con le riprese delle manifestazioni noglobal, fino a progetti come il Portland Indipendent Media Center. Negli ultimi anni sono nati progetti simili anche in Italia, come New Global Vision, al quale aderiscono anche le tv di strada della rete diTelestreet. Uno dei maggiori problemi finora è stato il costo elevato necessario sia per ospitare file video, sia per la disponibilità della banda internet necessaria per lo streaming o il download. Problemi superati inizialmente grazie all’utilizzo delle reti peer to peer (le stesse con cui si scambiano i file musicali) e di software come BitTorrent. Fino alla decisione del celebre Internet Archive, il progetto che archivia tutte le pagine del web, di ospitare gratuitamente tutti i file audiovideo prodotti amatorialmente e distribuiti con le licenze Creative Commons. Una disponibilità di cui usufruisce ad esempio Ourmedia.org, l’ultimo esperimento di giornalismo partecipativo lanciato sul web.

Wikipedia: il cervello globale

“Intelligenza collettiva” è la parola chiave per comprendere il fenomeno del giornalismo partecipativo. Come afferma Dan Gillmore, il principale teorico di questo fenomeno, “i miei lettori collettivamente sanno più di me, e questo è una buona cosa”.

Il giornalismo partecipativo sta ottenendo nel campo dell’informazione gli stessi successi che il movimento open source ha ottenuto sul fronte dello sviluppo di software. E si richiama esplicitamente al modello open source Wikipedia, la più grande enciclopedia al mondo, scritta in modo collaborativo da oltre 16 mila utenti, che hanno inserito oltre 1 milione e 500 mila articoli in oltre 190 lingue. Wikipedia si basa su un software, il wiki (di cui al nome), che consente a ogni utente di scrivere un articolo così come di correggere o integrare quelli scritti da altri. Con le sue 500 milioni di pagine viste al mese, supera di poco in popolarità il sito del New York Times. Recentemente, poi, Wikipedia ha lanciato Wikinews, applicando lo stesso processo collaborativo per la creazione di notizie di attualità

Intorno a Wikipedia si è sviluppato un dibattito sulla credibilità delle informazioni create dagli utenti. Il valore di un’enciclopedia si fonda sull’accuratezza delle informazioni in essa contenute, certificata dall’autorevolezza degli autori nell’ambito specifico delle voci che sono chiamati a redigere e dalla selezione editoriale effettuata da un gruppo di esperti. Processi, questi, entrambi assenti nella redazione delle voci di Wikipedia.

Tuttavia, sostengono i difensori di Wikipedia, il paragone con l’enciclopedia tradizionale non calza, per il semplice fatto che ci troviamo di fronte a un prodotto editoriale diverso.

Chi va su Wikipedia sa che gli articoli sono scritti da utenti comuni e non sono sottoposti ad alcun controllo editoriale. L’autorevolezza di Wikipedia si basa su un processo sconosciuto ai media tradizionali: il controllo degli utenti.

Dato che ciascun utente può modificare informazioni inaccurate o parziali, questo consente l’emergere di una nuova forma di credibilità basata sull’intelligenza collettiva.

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