Pericolo recessione in Europa
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La guerra anglo-americana potrebbe portare ad una nuova recessione globale. Ma l’UE può salvare in un colpo solo la pace, l’economia e lo sviluppo sostenibile.
L’Iraq affronta la minaccia di una seconda devastante guerra sul suo territorio in una situazione estremamente precaria. Negli ultimi anni l’economia irachena è rimasta praticamente stagnante, con ritmi di crescita altalenanti, uno standard di vita penoso, tassi di inflazione stabilmente a due cifre e vicini alle tre. L’embargo che grava sull’Iraq colpisce praticamente ogni bene che non sia un medicinale o un genere alimentare, e questo pregiudica seriamente ogni tentativo di ripresa: le tecnologie sono arretratissime, mentre i pezzi di ricambio per i macchinari sono introvabili, cosa che rende ogni guasto un danno permanente.
Quando si parla dell’economia irachena, l’argomento centrale e fulcro di ogni analisi è naturalmente il petrolio: la popolazione irachena, infatti, sopravvive malamente grazie (per così dire) al programma “Oil for Food” delle Nazioni Unite, lanciato nel 1996. All’Iraq viene permessa l’esportazione di una quota pre-determinata di petrolio, la quale è piazzata sul mercato, e il cui ricavato viene destinato a programmi di sostentamento delle necessità della popolazione, in primo luogo per cibo e medicinali. La destinazione dei fondi è decisa dalla stessa ONU, la quale gestisce il conto sul quale confluiscono i ricavi della vendita del greggio.
È interessante notare che i pagamenti per il petrolio iracheno vengono effettuati solo in euro, mentre è altrettanto importante che l’Iraq è un membro a pieno titolo dell’OPEC, il cartello che riunisce molti tra i maggiori produttori mondiali di greggio. La produzione prefissata di petrolio per l’Iraq si aggira intorno ai 2,5 milioni di barili al giorno; nel caso in cui l’embargo e le restrizioni fossero eliminati, si stima che ci potrebbe essere un aumento dell’offerta, fino al 30%, che probabilmente non influirebbe sui prezzi mondiali ma che potrebbe far entrare nelle casse irachene valuta importante per risollevare l’economia.
È evidente, infatti, che il programma “Oil for food” è ampiamente insufficiente a garantire un livello di vita decente alla popolazione. Si stima che mezzo milione di bambini siano morti nell’ultimo decennio, mentre in media ogni cittadino dispone di 2000 calorie giornaliere, al di sotto del limite minimo raccomandato di 2400; inoltre, il PIL per capita è di circa 2700 dollari, inferiore a quello di Stati come Angola, Albania e Azerbaidjan. Se, come sembra, a pagare l’embargo sia stata solo la popolazione civile, dato che il dittatore che doveva essere il presunto obiettivo è ancora attivissimo al suo posto, lo strumento dell’embargo come arma contro i regimi totalitari è di nuovo fallito (come del resto anche nel caso di Cuba).
Certo, un’eventuale guerra contro l’Iraq non potrà certo migliorarne la situazione; ma potrà in ogni caso peggiorarla notevolmente in casa nostra, e oltreoceano.
Il perché è semplice, e si ricollega alla constatazione che un forte e improvviso aumento del prezzo del petrolio, in questo momento di stagnazione delle economie occidentali, avrebbe un effetto devastante sulle stesse. La Commissione Europea stima che per ogni aumento di 10$ del prezzo del petrolio (per barile), l’economia subirebbe, in media, uno shock sulla crescita dello 0,5% del PIL; paesi come Germania e Italia andrebbero automaticamente in recessione, mentre effetti a catena sarebbero dietro l’angolo (se immaginiamo l’impatto sulle borse o su politiche monetarie anti-inflazione, la recessione potrebbe essere anche piuttosto seria).
La ragione per cui un aumento del prezzo del petrolio sarebbe pressocché automatico viene dal fatto che i paesi arabi (Arabia Saudita in testa), i quali hanno in molti casi accordi commerciali e di cooperazione con l’Iraq, possono perfettamente mettere in ginocchio i paesi occidentali restringendo l’offerta di greggio. Perché ci sia un effetto sul PIL, concordano la maggior parte degli economisti, questo aumento deve essere duraturo, non compensabile attraverso una spinta fiscale dovuta all’aumento delle spese di guerra. In effetti è probabile che questa guerra non sarà breve come quella di dieci anni fa, dato che gli iracheni non affronterebbero più il loro nemico a viso aperto nel deserto, ma attraverso una lunga guerriglia, possibilmente nei grandi centri abitati.
In ogni caso, un taglio iracheno di 2,5 milioni di barili alla produzione giornaliera potrebbe perfettamente generare un aumento di 10$ del prezzo del petrolio; durante la guerra del 1990, le quotazioni raddoppiarono (da circa 15$ a più di 30$), mentre in occasione del taglio dell’offerta del 1999 (4,3 milioni di barili), il prezzo triplicò (da 10$ a 30$).
In questo contesto, l’UE si sta muovendo per poter parare il colpo, o perlomeno prendere delle contromisure; la Commissione sta infatti forzando i tempi per integrare maggiormente le politiche sull’energia a livello comunitario, mentre sta approntando una misura per aumentare le riserve energetiche, in modo tale da contrastare la volatilità dei mercati.
Un punto resta però fondamentale: la politica energetica comune, caratterizzata da una forte dipendenza esterna, deve essere accompagnata da una politica estera comune. Senza quest’ultima le misure prese a livello europeo non possono che essere difensive, in qualità di adattamento a pericoli immediati e correnti.
Una politica estera aggressiva deve invece essere tesa ad anticipare le possibili evoluzioni dei mercati delle fonti d’energia, in primo luogo il petrolio; è in quest’ambito che proprio l’Iraq gioca un ruolo fondamentale.
Il paese iracheno dispone, dopo l’Arabia Saudita, delle più ampie riserve petrolifere al mondo; uno dei fattori che caratterizza l’alta volatilità del mercato del petrolio sono proprio le discordanti voci sulla durata delle riserve mondiali, e in questo contesto paesi come Iraq e Russia rappresentano fonti indispensabili per una fornitura continua e stabile.
Nel momento in cui gli Stati Uniti mantengono delle relazioni, nella migliore delle ipotesi, fredde con Baghdad, l’UE può essere il partner preferito degli iracheni per le forniture di petrolio, nel caso però in cui essi possano essere liberi di decidere dove venderlo (oggi è destinato per il 45% agli Stati Uniti, di cui sono il sesto fornitore, e per il 35% all’UE). Il vantaggio sarebbe quello di avere una fonte di lunga durata e maggiori importazioni pagabili in euro, e non in dollari. Non è casuale, d’altro canto, la mossa di Saddam Hussein, che offrì il petrolio iracheno alle società europee, in concomitanza con la decisione di accettare gli ispettori ONU.
Gli Stati dell’UE avrebbero certamente tanti buoni motivi per non entrare in guerra con l’Iraq; quello energetico, malgrado sia forse il più cinico, non è il meno importante. D’altra parte, è certamente quello che spinge gli Stati Uniti ad una guerra con Saddam Hussein e guadagnarsi un potere vastissimo nello scacchiere politico e economico in Medio Oriente. Pensare che l’UE, seguendo l’avventura americana, possa partecipare al banchetto, è illusorio; in cambio degli utili di qualche impresa europea, gli Stati Uniti otterrebbero infatti il dominio della politica energetica globale.
Per l’UE, l’altra strada per abbassare i rischi di un contraccolpo sulla propria economia di uno shock petrolifero è quella di investire sulla ricerca e l’utilizzo pratico delle fonti di energia rinnovabili; la scelta è sicuramente lungimirante, ed è accompagnata dalla piacevole sensazione di poter aprire sul campo la via per lo sviluppo sostenibile globale.
Peccato che tipicamente gli sforzi per l’uso delle fonti di energia rinnovabili sono direttamente proporzionali al prezzo del petrolio. La speranza, quindi, è che le politiche per tenere bassi i prezzi petroliferi non pregiudichino questa ricerca; la crisi ambientale, l’instabilità politica in Medio Oriente e la volatilità del mercato del petrolio non farebbero altro che rinviare il problema ad un momento in cui saremo più in ritardo di oggi.