Paula Scher, quando il confine è (letteralmente) la parola
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Incontro a New York con l’artista di Washington che riproduce su tela enormi mappe Articolo di Filippo Lubrano
Paula Scher è la donna che ri-scrive la geo-grafia. Lavora, come in uno strano contrappasso, in un luogo che sfugge alle mappe: è uno studio, ma sembra il caveau di una banca. Forse perché tecnicamente era una banca.
Paula a volte è accompagnata nel suo mestiere da una qualche guerra, da improbabili impulsi architettonici, voglie di sfide al mondo o, come in questo caso, crisi finanziarie che ricollocano nomi e necessitano aggiornamenti sulle cartine. Solo che lei le cartine le dipinge: con le parole.
Un’infanzia tra le mappe
Paula Scher, nata 62 primavere fa a Washington, è prima di tutto una designer («artista è come ti chiamano gli altri», mi corregge), e forse ancor prima figlia d’arte: il padre fu uno dei capiscuola della cartografia moderna, e nei suoi anni da ricercatore per conto del Governo statunitense i suoi studi sulla correzione delle distorsioni nelle mappe contribuirono sostanzialmente a gettare le basi per il sistema che qualche anno dopo Larry Page e Sergey Brin avrebbero battezzato come “Google Maps”, lo strumento che avrebbe cambiato per sempre il rapporto con la cartografia del mondo intero. Di quanto dedurre che Paula, sin dai primi anni della sua vita, un certo rapporto intimo con le mappe dovrà pur averlo sviluppato. «Mio padre mi diceva sempre che non esistevano mappe accurate: per lui migliorarle era davvero una missione». Paula, invece, le mappe le disegna a modo suo: e per farlo, utilizza le parole.
Gli errori “forzati” dalle compagnie petrolifere
«Iniziai a dipingere mappe per caso. Stavo lavorando per un cliente su un progetto, un conoscente vide le mie bozze e manifestò il suo interesse per acquistare uno dei miei lavori. Fu così eccitante! Era la prima volta che qualcuno s’interessava a quello che facevo lontano dal computer. Così presi coraggio e intrapresi il mio percorso creativo». Per arrivare all’artista di oggi, le cui opere costano decine di migliaia di dollari, il percorso è stato lungo.Un percorso fatto interamente di mappe – che quindi è già un metapercorso. Alla base, vi è un processo estenuante di rielaborazione dei contenuti delle carte (Paula ne consulta diverse decine per lo stesso territorio) su scala enorme, dove il paesaggio è trasfigurato dai nomi stessi delle città, fiumi, mari, catene montuose che lo abitano; un luogo altro dove i confini sono dati dalle parole, ed i territori faticano a contenere tutti i loro nomi. Un posto dove perdersi diventa incantevole, dove l’errore diventa peculiarità, e contribuisce a rendere ancora più unica un’opera che non ha precedenti nella storia dell’arte. «Mio padre mi ha sempre insegnato che tutte le mappe contengono errori. Non tutti in buona fede, peraltro: spesso, ad esempio sono le compagnie petrolifere a decidere lo “spessore” di una strada in una mappa, in funzione a quante stazioni di riferimento hanno dislocato in quella zona. Non c’è nessun’altra ragione, a ben pensarci, per cui alcune strade debbano risultare più importanti di altre. Da questo punto di vista, la mia è un’interpretazione della realtà vergine, ingenua se vogliamo. Ma non per questo deve avere meno dignità ontologica di quella ufficiale del Governo o del NY Times. La scala distorta, gli errori di ortografia: tutto contribuisce alla mia prospettiva unica sul mondo». Paula disegna le sue mappe interamente a mano, con pennelli su tela, entrando in una dimensione quasi fisica con il proprio elaborato, che alla fine assume dimensioni di una metratura esagerata, che incutono quasi timore alla vista, ed al contempo incitano ad avvicinarsi, ed a farsi inglobare dal mondo che già ci ingloba.
In Europa, dove i nomi sono più grandi degli stati
«Ho disegnato quasi tutto il mondo, ormai, anche se ovviamente ci sono dei luoghi che mi affascinano più di altri» mi racconta Paula mentre passa in rassegna le riproduzioni delle sue opere: Manhattan di notte, Manhattan di giorno, la rappresentazione dello Tsunami, l’Europa: «L’Africa, ad esempio: è forse il continente che mi interessa di più. Nonché il più incredibile da rappresentare: è sorprendente quanto il francese sia penetrato ovunque, anche nei villaggi più insignificanti. Ho imparato molto di più sulla colonizzazione con questo lavoro che studiando qualsiasi trattato di storia». Dalle mappe sbuca una Cina in caratteri Pinyin, non in ideogrammi: «Anche la via della Seta è terribilmente affascinante, mentre la vostra Europa è una sfida. Trovo però meraviglioso che abbiate degli Stati talmente piccoli da non riuscire a contenere neppure il loro nome».
L’importanza del carattere, nella strada verso casa
Paula nutre ovviamente una passione maniacale per il lettering (lo studio dei caratteri): i font a cui si ispira sono quelli della famiglia “Sans-Serif”, con taglio senza fronzoli, ottimizzato sulla leggibilità, rigorosamente in stampatello. Così, quando tira fuori dai cassetti del caveau la sua idea di Europa, con lo sguardo non posso evitare di guardare quello stivale fatto di Genovaromamilanotorinonapolipalermo, vorticare di nomi che si sostituiscono leggeri alla Pianura Padana, e le T di Trento che riparano come le Alpi dal vento e dagli spifferi, e le V di Verona e Venezia che ne incanalano le correnti nordiche. Fino a trovare quel posto che io chiamo “casa”, e scoprirmi emozionato nel trovarla scritta così grande, così forte, come se qualcuno si fosse dimenticato inserito un “Caps Lock”: LA SPEZIA.
È lì che Paula mi si avvicina all’orecchio, e piano mi sussurra: «Potrei fartene vedere altre mille, delle mie mappe, ma ora che hai trovato la tua, non riuscirai più a separartene».