Parigi e Berlino vogliono salvare il Welfare!
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Certo che è giusto frenare l’integralismo anti-inflazione della BCE. Ma, per favorire la ripresa, i colpi di mano dell’Ecofin non bastano. Ci vuole un Patto sociale europeo.
La decisione dell’Ecofin del 25 novembre scorso, con la quale i Ministri delle finanze dell’UE hanno risparmiato una costosissima procedura per deficit eccessivo a Francia e Germania, rappresenta di certo un punto di non ritorno per la politica e le relazioni economiche europee.
E’ però doveroso capire come Francia e Germania abbiano dalla loro molte ragioni. Il Patto di stabilità e crescita (PSC), che il presidente della Commissione in persona ha definito, di sfuggita, letteralmente “stupido”, non ha davvero aiutato i motori dell’economia europea a uscire della recessione mondiale.
E ciò per un ragionamento banale, ripetuto decine e decine di volte sulle pagine dei più importanti quotidiani specializzati del mondo, anche su quelli di credo non esattamente statalista: in un’economia in recessione la peggior cosa che si possa fare è tagliare il rubinetto della spesa pubblica.
Una figuraccia politica
Eppure è quanto si chiedeva a Francia e Germania e quanto si era imposto al Portogallo un anno fa: ridurre la spesa pubblica, portare il rapporto deficit/PIL sotto la soglia del 3%, dimostrare ai partner, alla Commissione e ai mercati di essere paesi sani e in regola. Ciò avrebbe frenato le possibilità di ripresa che si aprono sui mercati mondiali dato soprattutto l’insaziabile appetito del consumatore americano. E contribuito ad arrestare una stagnazione che sta avendo sensibili effetti sui tassi d’occupazione.
Ma quali sono i possibili contraccolpi del mancato rispetto del PSC se prestiamo attenzione alle critiche della Commissione e dei paesi “virtuosi”?
I pericoli sono essenzialmente tre. Un aumento del debito potrebbe portare ad un aumento dei tassi d’interesse, dovuto al fatto che i paesi indebitati metterebbero sotto pressione i mercati per piazzare i titoli di nuova emissione. Il secondo pericolo è un aumento del tasso d’inflazione su pressione dei paesi debitori desiderosi di ridurre il valore reale del debito. Il terzo rischio, infine, riguarda la credibilità della politica economica europea, e delle regole sulle quali si governa.
E’ tuttavia facile capire come l’unico, vero rischio per le economie europee sia, tra quelli elencati, soltanto l’ultimo. Infatti un deficit in ogni caso non gravissimo (inferiore al 5%) è perfettamente assorbibile dai mercati finanziari europei e mondiali senza pressione sui tassi, mentre alla depressa economia europea non deve far paura l’aumento dell’inflazione. Il vero pericolo sarebbe, semmai, la stagnazione dei prezzi: una deflazione alla giapponese, per intenderci.
Sulla strada del federalismo
La figuraccia fatta dall’UE davanti all’intero mondo finanziario, invece, non è da sottovalutare, perché comporta una forte perdita di fiducia con potenziali effetti sul mercato valutario. Ma il comportamento dell’euro, arrivato a nuovi massimi nei confronti del dollaro, lascia pensare che la perdita di fiducia sulle istituzioni europee provocherà con tutta probabilità soprattutto danni politici e non economici.
Da questa breve analisi si può allora affermare che la decisione dell’Ecofin provoca più effetti positivi che negativi. A patto però che l’Europa colga l’occasione per riformare le regole.
Questa riforma deve basarsi su tre principi:
1) La flessibilizzazione del Patto, con la fissazione di un limite più alto, che possa dare agli Stati la possibilità di ammortizzare i deficit dovuti a recessioni.
2) Il chiaro abbandono di una politica monetaria e economica che punti alla stabilità di bilancio e prezzi, e la promozione di politiche a favore dell’occupazione e dello sviluppo. Per raggiungere questo obiettivo è d’obbligo modificare la politica integralista anti-inflazione della BCE e lasciare alle finanze pubbliche europee la possibilità di intervenire sulle proprie economie.
3) La stipulazione di un Patto sociale europeo, che includa tutte le forze sociali del continente (governi, istituzioni europee, sindacati, patronato) attraverso un dibattito trasparente e aperto che faccia nascere un nuovo governo economico europeo, sottoposto al controllo democratico dei cittadini. Si raggiungerebbe un federalismo economico, che supererebbe l’attuale tecnocrazia imperante e rappresenterebbe un passo avanti verso un pieno federalismo politico.
Il principale problema della politica economica europea è stato la mancanza di un dibattito critico sulle regole che la reggono. Dato che l’attuale sistema è palesemente in crisi, l’unica alternativa, cara a molti, è quella di impiantare una massiccia liberalizzazione e privatizzazione delle economie europee, inclusi tagli pesanti alla spesa pubblica corrente.
Ma lo smantellamento dello Stato sociale europeo non è esattamente ciò che conviene, e vuole, la maggioranza dei cittadini europei, soprattutto perché sarebbe imposta da istituzioni tecnocratiche e non democratiche. I tagli richiesti per rientrare nei limiti devono infatti toccare la spesa corrente, ovvero i finanziamenti allo stato sociale, alla ricerca, ai sussidi di disoccupazione.
Una riforma del genere non può essere intrapresa senza un chiaro consenso sociale, frutto di difficili consultazioni e trattative. Trattative tra istituzioni legittimate a rappresentare i cittadini, non tra funzionari di carriera. È questo quello che hanno voluto affermare i ministri di Francia e Germania nell’ultimo consiglio Ecofin.