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Pacifismo + antiamericanismo = politica estera?

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La politica estera è una patata bollente per le coalizioni di centro-sinistra europee, costrette a districarsi tra fedeltà atlantica ed europeista, responsabilità di governo e ideali, interventi militari e retorica pacifista.

Cosa succederebbe se un nuovo pesante attacco di Al Qaeda colpisse un Paese europeo governato dal centro-sinistra? Muterebbe la posizione pacifista sulla crisi irachena se una strage mietesse vittime sul proprio territorio? Scenari non certo impossibili, ma che i leader della sinistra europea vorrebbero assolutamente scongiurare, poiché non c’è cosa che la sinistra tema di più della guerra.

Di giorno pacifisti, di notte guerrafondai

In campagna elettorale il pacifismo, arma di cui la sinistra detiene l’esclusiva, sembra giovare ai partiti socialisti: esempio lampante l’insperata riconferma di Schröder nel 2002 in piena crisi irachena. Una volta al governo, però, il tema guerra-pace si trasforma in una mina vagante in grado di far esplodere qualsiasi coalizione di centro-sinistra. Ne sanno qualcosa D’Alema e lo stesso Schröder in occasione del conflitto in Kosovo del ’99. Per capire quanto possano cambiare le dinamiche, all’epoca la Lega Nord, che avrebbe poi appoggiato l’intervento in Iraq del 2003, si schierò dalla parte di Milosevic e contro l’intervento Nato, mentre il “pacifista” D’Alema, allora al potere, approvò i bombardamenti su Belgrado.

In campagna elettorale, si sa, si fanno tante promesse, ma nella politica estera vera e propria sarebbero auspicabili visioni simili tra destra e sinistra. Invece sta succedendo il contrario: la politica estera sembra sempre più influenzata dall’appartenenza politica più che dalla linea del proprio paese. Così con Prodi al potere a Roma e Zapatero a Madrid avremmo avuto uno scenario radicalmente diverso durante buona parte della crisi irachena.

Riformisti vs massimalisti

Speculazioni a parte, nel momento in cui una coalizione di centro-sinistra si trova davanti ad una guerra, scoppia l’eterna faida tra riformisti e massimalisti: all’interno dei principali partiti si osservano grandi lacerazioni, una corrente del partito o singoli esponenti di spicco che si sentono traditi, abbandonano, mentre i partiti più a sinistra si ergono a unici custodi della tradizione pacifista e una crisi di governo strisciante accompagna i governi in guerra, come quello di Blair, ancora in sella per miracolo. Una storia vecchia quanto la socialdemocrazia, ma sempre più attuale, oggi: finita la Guerra Fredda e con una Nato che ha perso la sua ragion d’essere, diventa sempre più difficile spiegare ai propri elettori che hanno il pacifismo nel dna, i motivi di un intervento militare, quale sia la guerra giusta. A Schröder non rimase che evocare Auschwitz per giustificare la prima partecipazione ad una guerra dopo il ’45 – quella del Kosovo, appunto – per lo più senza mandato Onu.

Antiamericanismo, un populismo di sinistra

Ad essere sinceri più che il pacifismo, sembra l’antiamericanismo ad essere senza “se” e senza “ma”, visto che il primo, nonostante i nobili intenti e le giuste battaglie è stato quasi sempre di un colore ben preciso più che arcobaleno. Così nessuno si è mai sognato di scendere in piazza contro un dittatore africano, la Corea del Nord o la Cina. Giuliano Amato, personaggio di spicco del socialismo europeo ha definito l’antiamericanismo “una forma particolare di pacifismo che scatta solo quando ci sono in campo gli Usa”. L’antiamericanismo fa parte di un certo populismo di sinistra e così sondaggi alla mano, la tentazione di giocare questa carta è sempre alta. Ma pacifismo e antiamericanismo bastano a fare una politica estera?

Con la retorica pacifista la sinistra ha mascherato la vera questione che non è tanto quella tra guerra e pace, ma quella fondamentale tra multilateralismo e unilateralismo, uno scontro che sta allargando sempre più l’oceano che separa Europa e Usa. L’unico modo per uscire dalla crisi che investe le politiche estere della sinistra europea è: sviluppare un coerente progetto multilaterale, promuovendo una riforma dell’Onu, e lavorare a una politica estera europea, che non sia sempre e comunque antiamericana, nella speranza che, con l’elezione di Kerry, Washington torni al multilateralismo che fu di Clinton. Non si dovrà cadere nella tentazione del populismo, degli slogan semplicistici come “ritiro immediato delle truppe” non corredati da alcun piano alternativo e delle furbate elettorali. Come fece Schröder che, in un eccesso di pacifismo, si spinse ad affermare che non avrebbe partecipato in alcun modo ad un’avventura in Iraq, neanche in caso di risoluzione Onu, tradendo così il tradizionale multilateralismo tedesco.

E se gli Usa intervenissero in Sudan, sarà la mano dello zio Sam che si vuole impadronire dell’Africa, o il tentativo di fermare un genocidio? Ci auguriamo che ciò non dipenderà da un sondaggio, ma dalla coscienza dei politici socialisti.