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Ozu Film Festival 2010

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Sevilla

Al cinema o nei telefilm, ho sempre ammirato gli eroi capaci di dire una battuta anche nei momenti di estremo pericolo. Dieci pistole puntate contro o un coltello che minaccia la gola della donna amata?

No problem: per l’eroe c’è comunque il tempo per una boutade, come se gli stessi personaggi fossero consci di essere visti da un pubblico da intrattenere e, pur di far divertire la platea, se ne fregassero per un attimo delle conseguenze messe in atto dal cattivo.

Ma con una precisazione importante: quella battuta, quasi sempre, precede la vittoria finale. Tu spettatore ormai lo sai. E si è pronti a scommettere che, a forza di essere “scritti”, oramai lo sappiano anche i personaggi. Ecco, forse certi eroi si possono permettere di scherzare davanti al baratro perché sanno di avere comunque buone speranze di farcela.

Il problema vero, dunque, si pone quando queste speranze diminuiscono o quando addirittura scompaiono. All’Ozu Film Festival 2010 (www.ozufilmfestival.com), concorso internazionale per cortometraggi (Sassuolo, Italia, 29-31 Ottobre 2010), l’alta qualità artistica dei film in concorso è stata pari solo al pessimismo di fondo che ha caratterizzato buona parte delle opere proiettate. Poche speranze, a partire dai corti europei. La nazione di provenienza cambia poco la sostanza. C’è chi ha timbrato la carenza di futuro raccontando vuoto e solitudine (vedi i britannici James Newton con le persone scomparse del documentario The space you leave o la festa senza invitati di Linsey Miller e del suo Hip Hip Hooray); c’è chi ha provato – impresa eterna – a comunicare l’incomunicabilità (il bambino altalenante tra i genitori separati de La Balançoire, del belga Christophe Hermans); c’è chi si è messo a danzare con la rabbia in una danza sempre troppo sola (gli scontri di The April Chill, del georgiano Tornike Bziava); c’è chi ha cercato rifugio negli amici dell’infanzia (i pupazzi di Jericho, del’irlandese Liam Gavin); c’è chi ha addirittura provato a fuggire su di un altro pianeta trovandosi, però, a cantare le stesse canzoni senza futuro (il cowboy solitario del corto tedesco Yuri Lennon Landing On Alpha 46, di Anthony Vouardoux).

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Qualcuno, a dirla tutta, per tornare al discorso dell’inizio, la battuta l’ha usata. Con lo stesso tempismo perfetto degli eroi di quei telefilm ma con la differenza - sostanziale - di un’assenza di prospettive, strappando sì un largo sorriso che però finisce lì (come l’animazione tedesca Bob, di Harry Fast e Jacob Frey) oppure prendendosi gioco di coloro che, a differenza di molti, credono in qualcosa (vedi i “miti” della cultura hip hop demoliti dall’ironia basca ne i Los 4 McNifikos di Tucker Dàvila).

Insomma: di costruttivo all’Ozu 2010 si è visto ben poco. Aumenta l’abilità registica, diminuisce la positività dei contenuti. No expectations, dalla Scandinavia alla Grecia. E non è un caso che nel film vincitore (Ich Bin’s Helmut, produzione tedesca diretta dallo svizzero Nicolas Steiner) il mondo del protagonista addirittura gli crolli addosso, letteralmente, pezzo per pezzo.

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L’Italia? Se possibile, ancora più soffocata del resto d’Europa. Complice anche un’industria cinematografica meno organizzata di quelle iberiche o tedesche o d’oltre Manica, i corti italiani hanno mostrato una disillusione verso il proprio paese mai toccata dagli altri registi (è il caso di Stato Privato di Luigi Marmo), disillusione oramai marchio di fabbrica di tanto Cinema dello stivale.

E anche quando c’è un briciolo di ottimismo, come in Rec Stop & Play (regia di Emanuele Pisano), lo si evince solo da situazioni estreme e minoritarie, non certo da quelle quotidiane.

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Europa stanca. Be’, allora scappiamo negli Usa, no? Di certo il buon Obama avrà regalato quel “yes we can” anche all’ispirazione dei registi. Macché: la visione di Some Boys don’t leave della californiana Maggie Kiley è tanto sublime quanto lacerante per chi conosce le pene d’amore. Procediamo oltre il Pacifico, fino alla Nuova Zelanda. Terra di eroi. Ma questa volta di eroi con meriti che non vengono riconosciuti, anzi, che gli si ritorcono contro (Brave Donkey, del neozelandese Gaysorn Thavat).

Si torna in Europa, allora. E ci si rifugia nel neutro della Svizzera per chiudere, non certo a caso, con un film che dentro ha tutti noi e tutto il nostro immaginario: neri e bianchi, uomini e donne, europei, americani e asiatici, sesso e amore, Elvis e Martin Luther King, Batman e Robin (sempre a proposito di eroi). Fino a Marylin Monroe e Karl Marx, splendidi nella stessa inquadratura, che si chiedono cosa sarebbe successo se si fossero incontrati prima. Cosa sarebbe successo? Si sarebbero resi conto di essere due facce di una stessa medaglia, che nel 2010 non ne vuole proprio sapere di brillare verso un futuro.

Marcello Micheloni