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Ore 16:58, il tempo si è fermato in via D'Amelio

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PoliticaPalermo

Vi ricordate cosa stavate facendo alle 16:58 del 19 luglio 1992? Vi ricordate dove eravate nel momento in cui è esplosa la bomba che ha ucciso Paolo Borsellino e ingrigito il cielo di Palermo? La famiglia Marino* se lo ricorda bene.

Questa è la storia della famiglia Marino* che viveva al secondo piano di via D'Amelio 21 in quel lontano 1992, che non ha vissuto l'attentato a Borsellino dall'esterno, come il resto della cittadinanza con lo sguardo attonito rivolto al palazzo sventrato nel cuore di Palermo. No, lo ha vissuto dall'interno, nel proprio salone di casa.

Marta, la figlia maggiore, aveva 17 anni e ricorda ogni dettaglio di quel giorno. «Ricordo che ci trovavamo a San Martino passavamo sempre l'estate lì,» racconta, «immediatamente dopo l'esplosione arrivò una telefonata ai miei genitori. Qualcuno diceva che era esplosa la pompa di benzina che si trovava proprio in fondo alla nostra strada. Quasi immediatamente iniziarono ad arrivare altre telefonate, quando i miei genitori si resero conto di cosa fosse successo davvero tornarono subito a Palermo».

Arrivati sul posto, si trovarono davanti allo spettacolo brutale che tutti conosciamo. Macchine infuocate, il palazzo divelto, gente dappertutto, fumo e cenere. C'era un cordone di sicurezza che non faceva passare nessuno. «Non potevamo avvicinarci alla nostra stessa casa, ce lo impedivano perché ancora non sapevano quanto fosse pericoloso, se il palazzo avesse subito dei danni strutturali». Nei giorni successivi nessuno dei residenti ebbe il permesso di avvicinarsi alla propria casa se non scortato da Vigili del fuoco e Carabinieri, che ogni notte stazionavano sotto il palazzo per evitare i fenomeni di sciacallaggio sin da subito verificatisi.

La famiglia Marino, come le altre che vivevano in quel palazzo, ha perso tutto nella frazione di secondo successiva all'esplosione. Non c'era più una casa, ma solo delle macerie. L'onda d'urto era stata cosi forte da provocare uno smottamento totale di tutta l’abitazione. Sono crollati gli infissi, le mattonelle, i mobili. «C'era un tavolo di vetro in salone, ricordo che quando i miei genitori lo comprarono erano serviti tre uomini robusti per portarlo dentro casa. Quando finalmente i poliziotti lasciarono entrare mio padre, il tavolo era stato scaraventato dall'altro lato del salone e il tappeto che avevamo messo sotto, era accartocciato dal lato opposto».

C'era anche un orologio rosso nella cucina della famiglia Marino, è caduto in quel momento ed le sue lancette sono rimaste ferme, da 23 anni, intorno a quella maledetta ora, come un monito. Ore 16 e 58 del 19 luglio 1992.

Il Comune di Palermo, in accordo con dei residence privati, diede ospitalità alle famiglie di via D'Amelio per i mesi successivi all'esplosione. I Marino hanno vissuto per quasi quattro mesi in un alloggio in via del Bersagliere. «Era una sistemazione del tutto provvisoria,» ricorda Marta, «una stanza piccolissima dove dormivamo tutti e quattro insieme».

Una volta appurata la stabilità del palazzo il comune chiese alle famiglie di preparare delle perizie di parte per valutare i danni dei singoli immobili. «Anche in quel caso le cose non filarono del tutto lisce. Mio padre era proprietario di un'impresa edile e nella perizia inserì solo i danni della struttura, per questo fummo i primi di tutti l’edificio a rientrare a casa,» racconta ancora Marta. «Ma ricordo che quando consegnammo la perizia ai responsabili dei sopralluoghi, quelli chiesero a mio padre dove fosse la ricevuta della tintoria. Gli altri inquilini avevano messo pure quella nel conto».

Negli anni successivi via d’Amelio è diventata simbolo della lotta alla mafia. Ogni anno dalla loro finestra i Marino hanno assistito a parate, comparsate di politici e  politicanti, tra cordoni di poliziotti e tiratori scelti sui tetti.

Nessuno pensa mai che la mafia per raggiungere il proprio obiettivo sia disposta a spazzare via qualsiasi ostacolo lungo il cammino. Anche a lasciare senza la propria casa civili innocenti. Pensiamo sempre al giudice e l'eroicità della sua vita. Paolo Borsellino non aveva deciso di essere un eroe. Lui era passato a prendere sua madre, come fa un qualsiasi figlio una domenica pomeriggio qualsiasi. È diventato un eroe suo malgrado, perché ha avuto la disumana forza di non arrendersi.

Il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, intervenuto al convegno "Quale mafia ha ucciso Paolo Borsellino", ricorda che al funerale di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo Paolo si avvicinò ai suoi colleghi magistrati e disse: «Ragazzi, vi parlo come un padre, come un fratello maggiore, ho il dovere di dirvi che non possiamo farci illusioni: se restiamo, il futuro di alcuni di noi sarà quello». E con una mano additò le bare esposte nell’atrio del Palazzo di Giustizia. Poi aggiunse: «Io resto e resto solo per loro» e con la stessa mano indicò la folla, un fiume di gente di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali accorsa per dare l'ultimo saluto al magistrati. «Non posso lasciarli soli».

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*Marino è un cognome di fantasia che abbiamo usato per tutelare la privacy degli intervistati.