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Operation Iranian Freedom? Improbabile.

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La possibilità che si ripeta un'azione militare sul modello iracheno appare remota. Ma non per questo gli ayatollah possono dormire sonni tranquilli.

Per una di quelle ironie che la Storia sembra divertirsi a seminare sul suo intricato percorso, la rivoluzione iraniana potrebbe esportarsi nel vicino Iraq nel momento di suo maggior declino. Un declino iniziato di fatto subito dopo la vittoria del 1979, con la “guerra santa” contro l’invasore iracheno negli anni Ottanta, e continuato inesorabile attraverso tutto il decennio successivo. Un declino che è economico, internazionale (la Repubblica islamica non è mai riuscita a proporsi come un attore all’altezza del suo peso) e soprattutto ideale. Gli ayatollah, portati al potere grazie ad una delle più grandi spinte popolari che il XX secolo abbia conosciuto, appaiono sempre più lontani dai sentimenti e dalle esigenze popolari.

« L’Hezbollah ? Umanitario »

Dai tempi della Rivoluzione la popolazione iraniana è cresciuta a dismisura, passando dai 33 milioni che contava alla sua vigilia ai quasi 66 milioni di oggi. Il tessuto economico e sociale del Paese non può non averne risentito. Tanto più che si tratta di una popolazione estremamente giovane: i due terzi degli iraniani di oggi non hanno alcun ricordo dei tempi cupi dello scià. La loro infanzia è stata piuttosto scandita dalle restrizioni e dall’impoverimento determinati dalla decennale guerra con l’Iraq. Alla loro leadership, essi chiedono semplicemente che sia capace di affrontare e risolvere i problemi del Paese.

Per comprendere se l’Iran diventerà a breve un nuovo Iraq, dobbiamo partire da qui. In Iran c’è un’opposizione popolare profonda alle cariche della Repubblica islamica. Nel 1997, questa opposizione confluì nell’elezione alla Presidenza della Repubblica di Mohammed Khatami, il “riformista”. Metto la parola tra virgolette perchè oggi la maggioranza di coloro che sei anni fa lo portarono al potere sono delusi dal suo operato. Le riforme, giudicate necessarie, sono arrivate col contagocce. Colpa del sistema del wilâyat al-faqîh, che dà alla Guida Suprema, che governa in nome dell’“Imam nascosto”, il potere di bloccare tutte le leggi approvate dal Parlamento. Khatami è stato risucchiato in una lotta interna con gli ayatollah più reazionari, che controllano il Consiglio dei Guardiani, e la promessa azione riformista è stata poco incisiva. Risultato: si tende a non vedere gran differenza tra lui e gli altri leader iraniani. La domanda di cambiamento della popolazione, che nel 1997 aveva confluito verso la sua fazione, è oggi “orfana”.

Nel 1997 gli Stati Uniti di Clinton avevano guardato con interesse all’elezione di Khatami, aprendo una sorta di dialogo critico con la Repubblica islamica. Di fatto, si erano allineati alla posizione europea, il cui fine era (ed è) di favorire ogni posizione riformista interna e di non mettere in atto alcuna politica che possa indebolirla vis-à-vis del potere religioso. L’apertura di credito non è stata però seguita, agli occhi degli Americani, da cambiamenti significativi: l’Iran continua a considerare l’Hezbollah come un “movimento ideologico e umanitario” (sono parole di Khatami) e non come un’organizzazione terrorista (visione del Dipartimento di Stato, così come dell’Unione Europea); mentre gli aiuti che l’Iran gli riserva sono stati tra gli ostacoli più grandi sulla strada del Processo in Medio Oriente. Soprattutto, le aperture di Washington sembrano non aver bloccato la volontà degli Iraniani di dotarsi di armamenti atomici. In tutti questi punti salienti di politica estera, i “riformisti” e i “reazionari” hanno parlato con una sola voce. Di conseguenza, nel luglio 2002, il Presidente USA Bush, che già aveva avvertito la Repubblica islamica piazzandola tra i Paesi dell’asse del male, ha dichiarato chiusa la fase della cooperazione con i “riformisti” ed ha aperto quella della cooperazione “con il popolo iraniano”.

Unione europea sul dialogo critico

Questa nuova cooperazione sarà sancita da un rovesciamento armato del regime di Teheran? La domanda circola con timore tra la leadership iraniana, così come in Europa, dopo la fulminea vittoria militare in Iraq.

Durante il conflitto contro il regime di Saddam Hussein, l’Iran ha mantenuto un profilo basso. A differenza della Siria, non ha promosso l’afflusso di uomini o armi, e ha moderato -nei limiti della sua ventennale retorica contro il Grande Satana- la sua opposizione verbale agli USA. Ecco una ragione del perchè, dopo la vittoria a Baghdad, i responsabili americani si sono rivolti con particolare veemenza verso Damasco. A Teheran si era meglio compresa l’importanza di non inimicarsi oltremodo Washington.

Anche perchè Washington -è quanto si è capito in Medio Oriente- quello che dice lo fa, e quello che farà lo annuncia (il famoso “I mean what I say and I say what I mean” di Bush). E i neconservatives hanno sempre dichiarato di volere un “cambiamento” a Teheran (così come a Damasco), senza fare alcun esplicito riferimento all’uso della forza armata, come invece avevano fatto per l’Iraq.

E poi c’è l’UE. E, all’interno dell’UE, la Gran Bretagna. Se sull’Iraq non c’era una posizione condivisa, nè tantomeno una qualche politica comune, dei 15 membri, per l’Iran c’è. E’ la politica del dialogo critico, fondata sullo sfruttamento delle risorse energetiche di cui l’Iran è ricco (e a cui Washington ha deciso di non guardare, come mezzo di contenimento della Repubblica islamica) e sulla convinzione che un cambiamento è possibile all’interno, grazie all’azione dei riformisti. Nei primi mesi di questo 2003, mentre i 15 Paesi membri si dividevano sull’Iraq, la Commissione Europea intavolava i negoziati per un trattato commerciale. La prosecuzione di questi negoziati, secondo la formula del dialogo critico, è subordinata a un miglioramento nei dossiers sul rispetto dei diritti umani e sui test nucleari. Il loro inizio, in ogni caso, indica che tutti e 15 i membri hanno ritenuto opportuno continuare il dialogo e -nelle parole del Commissario per le relazioni esterne, Patten- “non isolare l’Iran”. Tra di loro, anche quei Paesi, come la Gran Bretagna, la Spagna e l’Italia, che hanno appoggiato la posizione di Washington sull’Iraq. Verso Teheran, dunque, l’UE sembra parlare con una sola voce. Credo che Tony Blair, che già ha negato l’esistenza di un qualche piano per attaccare la Siria intenda far valere questa unità nelle relazioni con Washington.

Tutti questi elementi dovrebbero impedire che l’Iran diventi presto un nuovo Iraq. Data l’esperienza ventennale a Teheran, sarebbe bene riuscire ad evitare anche che l’Iraq si trasformi in un nuovo Iran.