Napoli, la metamorfosi dell’ "Impossibile": da carcerati a pizzaioli
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Piera FiammenghiImmaginate un gruppo di ragazzi inglesi ex-detenuti. Immaginate che, per riguadagnare il rispetto nella società, decidano di cucinare fish&chips per i poveri. Non ci riuscite? Andate a Napoli e aprite gli occhi. Il retroscena della criminalità organizzata rimane un tabù, ma gli "scugnizzi" cambiano vita grazie all'unione di valori tradizionali e simboli anticonvenzionali, come il rugby.
I ragazzi della “Pizzeria dell’Impossibile”, messi in ghingheri e vestiti di bianco, si spintonano a vicenda durante la loro cerimonia di laurea e mi sfottono per il fatto che non capisco il napoletano. Hanno concluso un corso di formazione di 200 ore per pizzaioli nelle ultime sei settimane e hanno sfornato circa cinquanta pizze al giorno. I loro clienti? Soprattutto "bisognosi" della comunità locale che hanno potuto reclamare un piatto caldo grazie ai buoni pasto distribuiti dalle chiese.
Eppure non sono apprendisti qualunque. Questi 14 ragazzi sono stati tutti imputati di piccoli reati e sono in congedo dal carcere di Nisida, uno dei principali istituti penitenziari di Napoli. In Italia ce ne sono 17 in tutto. Situato su un isolotto del Mediterraneo, venne utilizzato dall’esercito britannico come prigione durante la seconda Guerra Mondiale. Oggi ospita anche l’Osservatorio europeo per il fenomeno della devianza minorile.
SAPORE DI LEGALITÀ
“Una volta anche io ero uno scugnizzo”, dice Antonio Franco. "So quanto possa essere difficile vivere a Napoli quando si è giovani". Nel 2005 ha fondato l’associazione Scugnizzi - termine che in dialetto vuol dire “ragazzi di strada” – e da allora si dedica al reinserimento dei minori nella società, anche organizzando attività non ufficiali come partite di calcio. Nel 2010 ha dato vita al progetto "Finché c’è pizza, c’è speranza" con il supporto dei Fratelli La Bufala, gestori di una catena mondiale di pizzerie. Lo stabile dove si trova l'associazione, una volta vuoto e desolato, è stato ristrutturato da poco: le pareti sono tinte di un giallo acceso e si trova solo a pochi passi dal centro storico della città. Solitamente i ragazzi vengono assunti dopo aver ricevuto la loro condanna a Nisida. “Lo Stato non riesce a garantire una seconda opportunità a questi ragazzi, una stabilità di vita”, dichiara con fermezza Antonio.
L’apprendistato ha avuto inizio lo scorso 4 febbraio, con 15 ragazzi tra i 16 e i 21 anni. Dieci di loro sono arrivati tramite i tribunali, mentre cinque sono stati selezionati tra i residenti dei quartieri popolari da Olga Migliaccio, volontaria, 27 anni. In qualità di criminologa, afferma che, a volte, è difficile trovare l'approccio giusto. “I ragazzi non vogliono parlare con una “psicologa” ”, afferma. “La soluzione è di non covare pregiudizi e di parlare con loro scherzosamente.” Circa 3 settimane vengono dedicate all'arte del fare la pizza: “la pizza americana non è esattamente come la pizza napoletana”, rimarca Antonio, con uno sguardo d’intesa.
Ecco che arriva una consegna giornaliera di dolci: babà - la specialità locale - cannoli siciliani e sfogliatelle. L’interruzione è quasi divina, dal momento che il giovane fornaio che se ne occupa è Gennaro. Il 23enne è considerato dall’associazione un modello di apprendista reintegrato. Ha vissuto a Nisida tra i 14 e i 18 anni e da cinque lavora in una panetteria di alto livello. Ha imparato ad apprezzare i valori del lavoro e della famiglia, ma è un caso raro. Nella storia dell’associazione infatti, soltanto 3 ragazzi si sono reinseriti così bene nella vita di tutti i giorni. “Il nostro obiettivo è provare a tirar fuori questi ragazzi da Nisida prima che tornino sulla cattiva strada”, sottolinea Antonio. “Avere un lavoro è stato da sempre un’utopia a Napoli; oggiogiorno è ancora più difficile.”
Alla fabbrica Casa Infante, scambiamo un sorriso con un ragazzo dalle sopracciglia sottili. Ha un tatuaggio sul collo che raffigura due labbra chiuse a mo' di bacio e fuma con fare incuriosito. Marco Infante è appena tornato e grida: “Gennaro!”. Poi fa strada al giovane su per le scale, proprio davanti a noi. “Quando ero giovane, ho commesso un errore”, afferma Gennaro nell’ufficio dei fratelli Infante. Parla con voce sommessa e un marcato accento napoletano; anche lui ha dei tatuaggi sulle mani e sulle braccia e porta una borchia all’orecchio. “L’istruzione e i valori”, interviene Marco, accendendo una Marlboro rossa. “Mi hanno fatto riscoprire i valori della vita”, aggiunge Gennaro, che lavora dalle 6 del mattino fino all’ora di pranzo. Poi torna a casa per stare con i suoi due bambini. “Se vuoi cambiare qualcosa, deve venire da te”, dice con semplicità. “La crisi ha colpito Napoli prima di diffondersi altrove. Qui devi crearti le opportunità da solo”. E la pizza è la risposta ai problemi? “Napoli è una città povera”, spiega Antonio “La pizza unisce, perché è popolare, economica e piace a tutti. Inoltre conoscevo già i fratelli La Bufala.” Daniele, 21 anni, è appena tornato dal suo lavoro a Malta e si infila nella discussione: “L’importante non è fare la pizza: ciò che conta è l'interazione sociale.”
REDENZIONE OVALE
Il rugby è un altro modo per reintegrare i giovani nella società. Inizialmente, Gianluca Guido, direttore dell’istituto di Nisida, era dubbioso quando pensava al contatto fisico richiesto da questo sport. “I ragazzi hanno dimostrato che si sbagliava. È un ottimo sport per sfogare l’energia che sentono dentro ed esprimere il loro stato d'animo”, dice Marco Aiello, 26 anni, appena fuori dallo stadio principale. L’assistente sociale è stato l'allenatore del club amatoriale di rugby di Napoli - “Amatori Napoli” - per quattro anni: ha guidato gli allenamenti ogni settimana per 8-9 mesi all’anno. Una squadra tipo si compone di giocatori di età compresa tra i 16 e i 17 anni e include sia giovani italiani che rom, benché Marco non faccia distinzione riguardo al numero di giocatori non italiani.
A Napoli, in quasi tutti i negozi, troneggiano immagini di Diego Armando Maradona, ormai diventato cittadino onorario. Il rugby non è un fondamento della cultura italiana come il calcio o la pizza. L’Italia è entrata nel torneo Sei Nazioni solo nel 2000. “I bambini imparano a giocare a calcio in strada, dove ognuno segue le proprie regole e nessuno conosce il rugby”, spiega l’assistente sociale Anna Ferraino mentre ci parla del progetto “la palla storta". “Oggigiorno i giovani sono più viziati, ma non sono abituati a ricevere una pacca sulla spalla”, aggiunge Marco. “Non esistono codici di affetto né complimenti. Non ti vedono come un dio o un’autorità, ma piuttosto come un fratello. Per questo non è così difficile guadagnarsi il loro rispetto. A mio parere, i principali problemi sono i centri di detenzione stessi, a partire dalla fatiscenza delle strutture e degli edifici.” Marco ci confessa che alcuni criticano in maniera aperta questo tipo di reinserimento "alternativo". Le persone si chiedono se i ragazzi vadano a scuola o in vacanza. “La cosa più importante è far parte di un gruppo”, continua Anna. “È un’abilità intellettuale precisa ed è meglio puntare su questo aspetto. Tenere i ragazzi seduti in un'aula non serve.” L’assistente sociale fa notare che è il “dopo” che conta e accenna al tema della Camorra. “Alcuni di questi ragazzi hanno legami con le famiglie della criminalità”, aggiunge,“e agli assistenti sociali non è permesso di avere contatti con loro dopo che se ne vanno.” In Italia, il tasso di detenzione minorile e il tasso di recidività sono più bassi rispetto al resto dell’Europa. Il sistema giudiziario è caratterizzato dall’indulgenza. Forse, anche a causa della forte tradizione cattolica, affermatasi parallelamente alla realtà criminale, in cui i ragazzi sono cresciuti.
Tornati in pizzeria, Antonio Brigida viene abbracciato dai suoi genitori, Filimena e Aliberto, e da Antonio Franco che ora è visibilmente emozionato. Lui è già pronto ad accogliere un altro gruppo di ragazzi "problematici" il prossimo lunedì. "Sono triste che il corso sia finito. Mi piacerebbe essere un pizzaiolo", confessa il giovane Antonio. L’ "impossibile" che ha vissuto fuori dal carcere, delinea la determinazione spontanea e utopica della città di Napoli.
Video Credits: Gennaro Mormone / youtube
Un ringraziamento a Francesco Raiola, Giorgio Manella e, soprattutto, ad Antonio Alfano. Un particolare ringraziamento all'inestimabile Mario Paciolla che con il suo team di cafébabel-Napoli ci ha ospitato nella città partenopea.
Questo articolo fa parte della serie di reportage “EUtopia on the ground”, progetto di Cafebabel.com sostenuto dalla Commissione Europea nell’ambito in collaborazione con il Ministero degli Esteri francese, la Fondation Hippocrène e la Fondazione Charles Léopold Mayer.
Translated from The 'impossible' prisoner cum pizza boys of Naples