Miseria e nobiltà del modello sociale europeo
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Eleonora PalermoDallo Stato Sociale al “nuovo contratto sociale europeo”: focus sulle origini del concetto e le ragioni che portano alla sua attuale messa in discussione.
Se all’inizio degli anni Ottanta si è diffusa tra i sociologi l’idea che lo Stato previdenziale fosse in crisi, lasciando oltretutto presupporre un sua scomparsa, degli studi condotti dopo la seconda guerra mondiale hanno dimostrato l’esistenza in Europa di un reale patrimonio comune in tema di protezione sociale, fatto di spazio destinato alle problematiche sociali, di relazioni di lavoro, di un’organizzazione dei servizi di interesse generale, di livelli dei budget sociale, di relazioni di solidarietà e di sistemi di protezione sociali. Questi non sono che i pilastri, e lo sono da quasi un secolo.
I tre mondi dello stato assistenziale
Forgiato da due periodi chiave – la fine del Diciannovesimo secolo con le leggi sociali del Cancelliere tedesco Bismarck e la pubblicazione del rapporto dell’economista inglese Beveridge nel 1942 – questo capitale comune europeo è alla base di quell’“equilibro tra la prosperità economica e la giustizia sociale” che è sinonimo del modello sociale europeo rivendicato dai Quindici in occasione del Consiglio di Barcellona del 2002.
Nel 1990 l’economista Gosta Esping-Andersen ne ha sistematizzato la diversità distinguendo tre differenti “mondi dello stato previdenziale», che i sono tre possibili varianti nazionali del modello sociale europeo.
Il primo è direttamente ispirato al sistema messo in atto da Bismarck: viene chiamato “conservatore-capitalista” e funziona sul principio della contribuzione degli stipendiati, tende cioè a garantire i salari ai lavoratori e ha avuto successo soprattutto nell’Europa continentale. Costruito sulle idee di Beveridge, il secondo schema è quello del modello liberale anglosassone: suo obiettivo è quello di combattere la povertà e la disoccupazione applicando il principio della selezione. Quanto al modello socialdemocratico – che si ritrova principalmente applicato in nord Europa –, consiste nell’applicazione del principio dell’universalità promosso dallo stesso Beveridge con lo scopo di garantire una distribuzione egualitaria dei redditi. In questo modo l’accesso alle prestazioni forfettarie è fondata sulla cittadinanza o la residenza.
Diversi negli obiettivi e per i criteri d’accesso alla protezione sociale, questi tre paradigmi si distinguono anche in quanto al modo di funzionamento: se gli ultimi due sono finanziati attraverso le tasse, il modello bismarckiano si fonda sulle quote sociali dei lavoratori.
Oggi se messi in rapporto con i bisogni di trasformazioni profonde, la globalizzazione e le nuove aspirazioni dei cittadini, questi modelli sono diventati oggetto di pungenti confronti e controversie, alimentando anche il dibattito elettorale in Germania e Francia.
Una crisi ineluttabile?
Sono soprattutto i modelli ispirati agli standard bismarckiani a sembrare oggi in crisi: concepiti a partire da realtà evolutesi enormemente nei decenni, faticano sempre di più a rispondere alle attese attuali. Questo perché il cambiamento dei bisogni degli europei è legato a tre fattori: la nascita di quei nuovi rischi caratteristici della società post-industriale, tra i quali la necessità di contrastare il fatto che le qualificazioni obsolete, una debole copertura sociale della precarietà dell’impego, la discontinuità delle carriere professionali o la moltiplicazione delle delocalizzazioni. In secondo luogo, l’evoluzione dei comportamenti (invecchiamento demografico, famiglie con un solo genitore, impiego femminile, difficile conciliazione tra vita professionale e privata, domanda di sicurezza) e, terzo ed ultimo, il cambiamento dei modi di vita (urbanizzazione, mobilità geografica, indebolimento della solidarietà e maggiore dipendenza dai servizi statali da parte delle persone appartenenti alle categorie più disagiate).
Allo stesso tempo i governi europei - i cui sistemi di protezione sociale sono basati su modelli socialdemocratici e liberali – promuovono riforme che puntano sulla responsabilità individuale e fortemente ispirate dal make work pay (fare lavorare paga). Dotate di un’influenza che oltrepassa abbondantemente le frontiere nazionali, queste teorie contribuiscono a mettere sotto pressione lo schema proposto dall’Europa dei Quindici. Le tensioni ideologiche, le sfide lanciate dall’ultimo allargamento – liberalismo, budget comunitario, consolidamento istituzionale, dumping sociale – e la perdita di velocità dell’integrazione europea con la messa in discussione del principio di sussidarietà o i rischi di blocco della capacità decisionale dell’Europa a venticinque, o a ventisette, contribuiscono a rendere fragile il modello sociale europeo.
Crescita lenta ed egoismi degli stati membri
La stessa dimensione di solidarietà a postulato del del concetto è messa in discussione. In un contesto dove la debolezza della crescita incita alla soppressione di ciò che può diventarne un ostacolo, prende piede l’idea secondo la quale la sfera sociale non può-non deve limitarsi ad economia e buona sanità. Ancora più inquietante è la questione della capacità e della volontà istituzionale dei nuovi paesi dell’Europa centrale e orientale di adottare il modello sociale europeo. Inoltre se così tante nazioni restano attaccate alla dimensione sociale dell’Ue, i Venticinque sono sempre più sensibili ai vantaggi nazionali che possono trarre dai loro impegni a livello comunitario. Una tendenza resa più forte dalla spinta dell’approccio intergovernativo alle varie macroaree. Questo cambiamento di mentalità non è nemmeno più controbilanciato dalle spinte della Commissione, e intanto il dialogo sociale europeo, in assenza di temi comuni, non sembra essere capace di fare da tramite.
In queste circostanze poco favorevoli, la proposta di Tony Blair di riflettere su come modernizzare il modello sociale europeo per adattarlo meglio alle nuove realtà e sfide sociali è alquanto urgente da prendere in considerazione.
Translated from Grandeur et décadence du modèle social européen