Mercedes Bresso: «La guerra non combatte il terrorismo. Lo alimenta»
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La via europea è più promettente per l’Iraq. Café babel intervista Mercedes Bresso, ex-eurodeputata, attuale presidente della Regione Piemonte e neo-presidente dell'Unione dei Federalisti Europei.
A un anno dalla riconquista della sovranità da parte del popolo iracheno, continua la presenza militare delle “forze di pace” occidentali in Iraq. Tra auspici di ritiro delle truppe e dovere morale di aiutare la popolazione irachena, la presenza europea nel Paese è un tema problematico per le sinistre europee. Café babel ne parla con la professoressa Mercedes Bresso, neo-presidente dell'Unione dei Federalisti Europei (U.E.F.), l’organizzazione europea non-governativa e indipendente che promuove un’Europa federale. Dopo essere stata docente di Economia dell’Ambiente in svariate università italiane ed estere, a giugno 2004 la professoressa Bresso diventa deputata al Parlamento europeo, incarico lasciato ad aprile 2005 per assumere quello di Presidente della Regione Piemonte, eletta nella coalizione di centro-sinistra.
A suo parere, a un anno dalla fine dalla riconquista della sovranità , quale bilancio si può fare della situazione irachena? E quale peso ha avuto l’Europa nella sua evoluzione?
E’ difficile dare un giudizio sulla situazione attuale in Iraq. Ho la sensazione che la guerra si combatta adesso sul fronte dell’informazione: tutti siamo convinti che non ci venga raccontata la verità, tutta la verità e solo la verità. Questo mi induce a pensare che la situazione non sia esattamente quella che la coalizione prevedeva di creare con l’avvio del conflitto: insomma, i conti non tornano. Quanto all’Europa, possiamo dire che se la guerra è stata un elemento di divisione fra gli Stati, la pace è stata un fattore unificante a livelli di popoli e di opinione pubblica. Gli europei hanno avuto un ruolo di primo piano nel ridurre la forza, il peso e le conseguenze negative del conflitto.
A fine gennaio le elezioni irachene e l’affluenza degli iracheni alle urne sono state salutate con entusiasmo dall’opinione pubblica europea. Come giudica questo atteggiamento?
Personalmente, pur valutando positivamente il fatto che si siano svolte le elezioni, non mi sono lasciata travolgere dall’entusiasmo. Le elezioni in un Paese occupato e in preda a forti lacerazioni non sono mai veramente libere. Gli esiti di questa situazione non sono prevedibili.
Quale sarebbe secondo Lei la reazione in Iraq al ritiro delle truppe italiane ed europee?
Non credo che il ritiro delle truppe italiane possa rendere più sanguinosi e frequenti gli attentati terroristici.
Durante il suo viaggio in Europa lo scorso febbraio, Condoleeza Rice ha esortato gli alleati alla compattezza. Quale impatto ha avuto questo discorso sulla posizione europea in Iraq?
Non credo che il discorso di Condoleeza Rice abbia influenzato più di tanto la posizione degli europei sulla guerra in Iraq. L’opinione pubblica resta scettica sulla congruità fra i mezzi e gli obbiettivi. In altri termini, in Europa si continua a pensare che la guerra non sia lo strumento adeguato per combattere il terrorismo.
Sicuramente Lei sarebbe più favorevole al ritiro europeo dall’Iraq. Non pensa che per l’Ue prendersi le proprie responsabilità significhi restare in Iraq, anche con gli Usa?
Magari con gli Usa, ma non sotto comando americano. Una forza di pace guidata dalle Nazioni Unite potrebbe essere una soluzione.
O invece rispetto agli Usa, cosa potrebbe offrire di più e in alternativa l’Europa? Quali scenari può aprire l’Europa rispetto a quelli prospettati dagli Usa?
La via europea è più realistica. Sradicare il terrorismo con i bombardamenti e con la guerra “infinita”, quella sì è un’utopia. Un’utopia terribile che sembra abbagliare i gruppi dirigenti della politica statunitense. Gli europei invece ritengono – realisticamente, appunto – che con la guerra non si combatte il terrorismo: lo si alimenta. E pensano che soltanto dialogando con il mondo arabo e con il Terzo Mondo si possano disinnescare le bombe che ci fanno tanta paura.