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Mattia Cacciatori: la vita in bilico del fotoreporter

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Miriam Goi

società

Incontro con Mattia Cacciatori, il giovane fotoreporter italiano arrestato a Istanbul lo scorso 7 luglio, per aver filmato le proteste di Gezi Park, che ha rischiato da 1 a 7 anni di carcere in Turchia. Abbiamo parlato con lui di questi eventi, ma anche e soprattutto di cosa significa fare questo mestiere, e dei rischi che implica.

Mattia Cacciatori, classe 1988, fotoreporter originario del veronese, ha raccolto nel suo portfolio scatti realizzati a Gaza, in Palestina, in Tanzania, in Mongolia e tanto altro. Probabilmente avrete sentito il suo nome in relazione a un altro reportage: quello delle proteste per Gezi Park a Istanbul, che gli è costato l’arresto, il rilascio e l’obbligo di non tornare in Turchia per un anno. Molte testate hanno parlato di lui nei giorni del suo arresto e del suo rilascio, essendo il secondo giovane fotografo italiano (il primo era stato Daniele Stefanini) a essere stato fermato dalla polizia a Istanbul durante le proteste di #occupygezi.

Mattia ci ha raccontato le sue esperienze e soprattutto le difficoltà del lavoro di fotoreporter.

Cafébabel: come è iniziata la tua esperienza in Turchia? come si è sviluppata la tua partecipazione fino al momento dell'arresto?

Mattia: Da sempre volevo fare il fotografo di guerra e seguire i conflitti internazionali e le grandi proteste sociali, dalle rivoluzioni arabe fino ai movimenti civili. Ero stato in Turchia 3 anni fa. L’esperienza di quest’anno è partita dal fatto che sentivo di dover essere là. Una volta arrivato, ho trovato un clima in cui non succedeva nulla, il che mi ha permesso nel giro di una settimana e mezza di stringere contatti, muovermi, capire, ascoltare gente che aveva vissuto le proteste violente e che aveva finalmente il tempo di fermarsi e pensare a quello che era successo.

Il sabato solitamente ci sono gli scontri più grandi. Si scende in Taksim Square, dove ci sono anche fotografi e giornalisti e si aspettano verso le 19 i meeting tra i manifestanti e spesso scoppia qualcosa. Il primo sabato sono stato ferito e mi hanno sparato in pancia i proiettili di gomma, però questo te lo aspetti e scendi in piazza lo stesso. Quel giorno c’erano stati anche alcuni arresti. Durante la settimana ho parlato con una cinquantina di persone per documentarmi, capire cosa stava succedendo e cosa avevano vissuto. In quei giorni ho ascoltato anche le opinioni di gente che vota Erdogan, musulmana.

Sabato, si sapeva che ci sarebbe stato qualcosa di più grosso perché i ragazzi avevano fatto un annuncio, dicendo che volevano tornare a Taksim Square. Molte persone si sono mobilitate e sono state fermate prima ancora di raggiungere la piazza. Io ero a metà di Istiklal ed è scoppiato l’inferno. Verso le 21 mi hanno arrestato, mi hanno fatto un primo interrogatorio sull’autobus, mi hanno portato in ospedale per le 23 e alle 2 del mattino ero in prigione, dopo essere stato spogliato e controllato per verificare che non avessi armi addosso.

Cafébabel: che impressione ti sei fatto delle politiche di Erdogan, delle dinamiche penitenziarie e della polizia, ma soprattutto del concetto di democrazia in Turchia? 

Grazie al mio lavoro sono riuscito a incontrare sia i sostenitori che gli oppositori di Erdogan. Dal 2002 a oggi le politiche sociali hanno apportato un notevole incremento del Pil e della ricchezza, ma questo ha portato più ricchezza a una fascia ristretta della popolazione e il gap tra il 10% più ricco e quello più povero si è innalzato notevolmente. Erdogan ha fatto una mossa capitalistica fortissima per risollevare economicamente il Paese.  Questo ovviamente ha abbassato il tenore di vita delle fasce più povere. Per far sì che queste persone non scendessero in piazza con i forconi, sta portando avanti una politica di islamizzazione della Turchia, andando a inserire in tutti i quartieri moschee, con un prolificarsi netto di luoghi e attività religiose. È anche vero che la laicizzazione del Paese aveva creato dei problemi a chi era musulmano e ora nei movimenti di piazza alcune fasce della popolazione islamica hanno difficoltà a entrare a contatto con i movimenti.

Cafébabel: cosa pensi della lettera di Francesca Borri, la giornalista freelance che ha pubblicato sul Columbia Journalism Review la sua denuncia contro gli editor, i giornali italiani e i pagamenti molto bassi a pezzo?

Quello che dice è vero. La difficoltà odierna di mestieri come quello del reporter è reale. A Gaza il mio fixer costava 40 euro al giorno ed era molto economico, anche perché non c’era una guerra in corso. Faccio altre cose per vivere o farei molta fatica ad arrivare alla fine del mese. Sono 4 anni che faccio questo lavoro, ho viaggiato in molti paesi del Medio Oriente, oltre a Sud America, Mongolia, Cina, Africa. Ma non vivo di giornalismo. Vai in una qualsiasi agenzia, chiedi quanto vogliono per 3.000 battute, sono 50 euro. Non si mangia di questo lavoro. Noi fotografi riusciamo magari a tornare a casa e fare 2-3 mesi di advertising e matrimoni, chi scrive ha solo una penna e un “diario” su cui scrivere. È dura.

Ogni giorno, quando facciamo questo lavoro, ci alziamo la mattina e dobbiamo fare foto in base a quello che riusciamo a vendere. Tu prendi una qualsiasi testata internazionale: mandi foto in bianco e nero? Non te le pubblicano. Se fai delle foto belle, a colori, da National Geographic, magari ti prendono in considerazione. Purtroppo dobbiamo seguire le mode del momento, come fotografare con Instagram e mandare gli scatti all’agenzia o andando in paesi come Siria e Egitto. Istanbul non viene più ascoltata, il Brasile non l’ho più sentito appena è entrato in campo Il Cairo. Seguiamo la notizia del momento. Secondo me è ora di smetterla di vendere quello che la gente vuole.

Cafébabel: il motto di una rivista milanese (Rivista Studio) è “il lettore medio non esiste”. Non si pongono in un’ottica generalista, si rivolgono ad un pubblico relativamente ristretto, che ne pensi? 

Dobbiamo essere noi fotogiornalisti e noi giornalisti a dire quello che è giusto che venga raccontato. L’editor ha il potere di dare una linea diversa al suo giornale, anche se mi rendo conto che sia una scelta politica difficile.

Cafébabel: hai lavorato per giornali o testate italiane? Un dibattito che si riapre spesso è quello sul ruolo della fotografia nel giornalismo italiano.

Sì, mi hanno rubato delle fotografie senza citare il mio nome. A parte questo no, non ho mai lavorato per il giornalismo italiano. Mi hanno chiesto di farlo. Ora che il mio nome è più conosciuto di prima, mi stanno proponendo alcuni lavori. In Italia è molto difficile lavorare come fotogiornalista, perché spesso la qualità non viene premiata e si dà più importanza ai soldi nel portafoglio.

Cafébabel: cosa ti ha colpito di più della tua esperienza di fotoreporter a Gaza?

L’umanità che ho trovato, in senso ampio. I ragazzi, i bambini, la voglia di evadere, di vivere. L’unica cosa che hanno in mano è la possibilità di vivere. Augurerei a chiunque 3 giorni in una prigione o a Gaza per capire e sentire il peso che hai sulle spalle quando sai di non poter uscire dal paese, di non poter viaggiare e di avere 8 ore di elettricità al giorno, di avere l’acqua salata che si preleva dai tank che arrivano dall’Egitto...

Cafébabel: ci sono progetti che vorresti realizzare unicamente su tematiche italiane?

Vorrei iniziare un progetto sulla vita, sulla bellezza di noi esseri umani che popoliamo l’Italia, per fare forse il mio primo reportage positivo. Continuiamo a lamentarci di tutto e di tutti, ma siamo uno degli stati più belli della Terra con uno dei popoli più belli del pianeta. Se investiamo finalmente sulla bellezza e sul futuro andremo avanti, se invece investiamo e parliamo solo di “schifo” non faremo altro che cadere più in basso.

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