Mario Monicelli: «Una ricetta per l'Europa? La commedia europea»
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Un the col il regista 93enne, padre della “commedia all’italiana”. In occasione dell’anniversario della nascita di Totò discutiamo di Italia e di Europa. Il potere del cinema? «Quello di rispecchiare e di raccontare, ma non quello di fare prediche».
Sguardo da chirurgo stanco, silenzio cardinalizio, coppola in testa: è Mario Monicelli, uno dei grandi del cinema, nonché padre della “commedia all'italiana”, un genere tutto italico, caratterizzato dalla leggerezza, ma allo stesso tempo dalla satira e dalla critica, che ha avuto il suo apice tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Gli cammino accanto osservando il silenzio, e aspetto di sedere con lui per sapere quel che resta della “sua” commedia e dove va il cinema.
Lui cammina piano, curvo ma fiero, sotto il peso di novantatré anni segnati da più di sessanta di pluripremiata carriera cinematografica: oltre sessantacinque tra sceneggiature e regie, lungometraggi e melodrammi e soprattutto commedie. Ha lavorato con tutti i “grandi”: Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, Totò, Vittorio Gassmann, Gérard Depardieu e persino Pasolini.
Parigi lo sta celebrando: deve presentare L'espressione triste che fa ridere. Totò e Monicelli, libro scritto da Adriana Settuario, e a tenere una leçon de cinéma, Monicelli par Monicelli, alla Cinémathèque Française , che al centodecimo anniversario dalla nascita di Totò, gli dedica due mesi di retrospettiva. Ci dirigiamo in una brasserie. E ciak, si gira.
Il regionale diventa universale
«Perché la commedia all'italiana è una commedia che non riguarda soltanto il costume», esordisce Monicelli, rispondendo alla considerazione che la “sua” commedia – una satira di ambientazione borghese con personaggi definiti attraverso caratteristiche spiccatamente italiane, primo fra tutti Totò – ha avuto un tale successo anche fuori dal Belpaese. «È uno scambio di leggerezza tra i personaggi, ed è imperniata sull’attualità e la vita: quindi tanto più è regionale, italiana, e tanto più risulta internazionale, proprio perché fa leva su fattori universali. A cominciare dalle musiche», continua “il Maestro”. E, effettivamente, chi se le dimentica più le musiche di Nino Rota a colonna sonora dell'Armata Brancaleone? O quelle de I soliti ignoti
Intanto Arrivano il suo earl grey tea e il mio café noisette. Suonano entrambi talmente poco italiani che si inizia a parlare di cosa rende simile l’Italia e la Francia: «Gli italiani se fanno qualcosa sono molto “italiani”, ma cercano di fare in modo che vada bene per tutti», replica solenne.
E al padre de I Soliti Ignoti non si può non chiedere da dove arrivi la “commedia all'italiana”. «Viene da molto lontano, dalla commedia dell'arte, dai personaggi di Ruzante (attore e autore italiano del Sedicesimo secolo, ndr) e Machiavelli, per citarne solo due. È da sottolineare che si chiama “commedia”, e non ”tragedia”, e che contemplava tutto: dall'amore alla morte, passando per la fame, la miseria, le malattie e la violenza. Generando un disperare che riesce tuttavia a far sperare: attraverso la risata».
«Verdone? È bravo, ma non ha coraggio»
E la commedia all’italiana oggi: che dire di Carlo Verdone, che molti vedono come un erede di questo tipo di commedia? «È un bravo regista e un bravo attore ma non ha coraggio: si limita a fare la commedia “non all'italiana”. Caratterizzata da film carini, e anche ben costruiti», prosegue, ma ove succedono «“cose così”, un po’ superficiali e che si risolvono bene. Sempre. La commedia all'italiana è il contrario: nulla si risolve e resta l'amaro in bocca», chiosa. Detto questo, appoggia gli occhiali sulla coppola, accanto alla teiera, mentre fuori comincia a nevicare.
Chi l’ha stimolato di più, tra gli attori, gli sceneggiatori e i registi con i quali ha collaborato? «Ho sempre lavorato con gente di grande qualità, che aveva molte cose da dire e una testa simile alla mia. Quindi con loro mi ci ritrovavo molto bene, e loro con me, visto che le cose che pensavamo sulla vita e sull'autonomia erano comuni».
Non ci resta che ridere
E siccome Monicelli di storia ne ha vista e ne ha fatta, ne approfitto per capire come vede il futuro, il cinema e l’Europa. «Il cinema si evolve parallelamente alla società: se quest'ultima si evolve, si evolve anche il cinema. L'uno è lo specchio dell'altra. Il problema? La società occidentale è in una fase di declino. Come sempre rilevo nei miei film», risponde amareggiato. E da cosa dipende questa involuzione? «Vige la legge del mercato: il più forte vince e deve guadagnare». Eccolo, finalmente: il Monicelli che ha cresciuto gli italiani del Ventesimo secolo a suon di personaggi intrisi di amarezza, cinismo e scetticismo.
Il cinema ha un potere? «Il potere di rispecchiare, di raccontare, ma non quello di fare prediche». Quindi descrive, ma senza agire? «Può essere, col risultato che la buona coscienza dello spettatore, italiano o no, torna sui banchi di scuola». A lezioni d'un realismo tutto monicelliano che non salva né le intolleranze e né gli amici più cari e i parenti, che per lui fanno eco con serpenti.
«È l’economia che vince: per questo la Francia s’interessa alla Romania, per esempio», replica tra il secco e l'amaro alla domanda su cosa pensi di quest'Europa che continua ad allargarsi a Est. L’allargamento servirà a fare da contrappeso alla superpotenza americana? «No, no. Né l'Europa né l'Occidente tutto insieme». E il cinema americano? «Il cinema americano non è certo quello dei grandi personaggi». Quali sono i registi che spiccano nel panorama europeo? «C'è un italiano, Gianni Amelio, penso a film come Il ladro di bambini. E pochi altri».
Il cinema deve toccare il cuore? «Mah, il cuore? La mente, piuttosto». Al momento di congedarsi gli domando una ricetta per l’Europa. Che fare? «Cambiare. Non fidarsi troppo della democrazia. Un consiglio? La commedia all'europea».