Maria Di Stefano: «Catturo le contraddizioni culturali del capitalismo»
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Nata in Abruzzo, cresciuta a Roma e con una formazione storico-critica sviluppata alla Sorbona di Parigi, Maria Di Stefano è un'artista multimediale che, tra il 4 e il 6 ottobre, esporrà due opere inedite, Rouge e World Hello, al Digitalive Romaeuropa Festival 2019. Abbiamo parlato delle contraddizioni del capitalismo contemporaneo. Ma anche di Trump e del ruolo dell'artista oggi. Intervista.
Maria, qual è stato il tuo primo contatto con l’arte?
Ho un ricordo che può sembrare banale: una gita scolastica al Museo nazionale di Capodimonte, a Napoli. Abbiamo visto la Flagellazione di Cristo del Caravaggio. Mi ha fatto un effetto che non avevo mai sperimentato prima. Mi ricordo che di aver pensato: “Cavolo, spacca”.
Se dovessi spiegare in poche parole cos’è un artista multimediale, come la metteresti?
Diciamo che un artista multimediale non è soltanto un pittore, un videomaker, o altro. Ma si caratterizza, appunto, per l’utilizzo di più formati all’interno della stessa opera.
A cosa serve la multimedialità nella tua arte?
A creare una stimolazione sensoriale su più livelli. Grazie a suoni e filmati, ho elementi per creare un racconto il più possibile completo, veritiero e realistico. Per esempio, il suono è la testimonianza più forte che un artista sia stato in un determinato luogo. Detto ciò, a mio avviso, la componente visuale rimane il perno della realizzazione multimediale.
Come sei diventata un’artista multimediale?
Dopo il liceo, ho studiato Storia dell’arte con specializzazione in cinema e fotografia alla Sorbona di Parigi. Vengo dunque da un percorso più teorico-critico, invece che tecnico. Dopo gli studi a Parigi, ho fatto una scuola di arte nel Regno Unito. E a seguire, esperienze di lavoro negli Stati Uniti, a New York e Los Angeles. Volevo restare negli USA, ma poi è arrivato il ciclone Trump...
E quindi?
E quindi ho cominciato ad avere problemi amministrativi, a partire dai visti: una difficoltà burocratica dopo l’altra. In poco tempo non mi sono più sentita al sicuro. Dato il contesto, ho deciso di tornare in Italia.
Ti sei ritrovata Salvini in casa però...
Se la metti così (risata). Scherzi a parte, sono tornata e ho trovato delle persone fantastiche qui a Roma con cui lavoro tutt’oggi. Sono riuscita a mettere in pratica quello che volevo. In realtà, ho continuato a spostarmi molto: Parigi rimane una città importante. Poi sono stata a Berlino e ho iniziato a sviluppare questo formato simil-documentario, grazie al quale trovo sempre un’occasione buona per andare altrove.
Anche i lavori World Hello e Rouge che presenti qui al Digitalive Romaeuropa Festival sono nati da questi viaggi?
Sì, sono nati nel 2018, mentre lavoravo a Berlino. Più nel dettaglio, durante il mio soggiorno nella Capitale tedesca ho scoperto il centro commerciale e culturale asiatico, Dong Xuan Center - diventato poi il focus di World Hello. Ma durante i mesi passati in Germania, ho anche avuto l’occasione di partire per un mese per l’Amazzonia: è qui che è nato Rouge.
Da un punto di vista concettuale invece, cosa ha dato il là a World Hello e Rouge?
L’idea nasce dalle similitudini che ho osservato nei due luoghi: nel Dong Xuan Center, a Berlino, e nel territorio tra Caienna e Saint-Laurent-du-Maroni, nella Guyana francese. Si tratta ovviamente di due micro-cosmi culturali diversi, ma accomunati dall’essere inseriti in un contesto altro. Nel caso di Caienna e Saint-Laurent-du-Maroni ho cercato di “catturare” la vita di tutti i giorni della popolazione indigena e il rapporto, tra quest’ultima, e le nuove culture sviluppatesi nell’area nel corso del tempo. Nel filmato cerco di mostrare come questo rapporto oscilli tra un’intersecazione, da un lato, e una separazione quasi settaria, dall’altro. La stessa contraddizione l’ho notata a Berlino: il Dong Xuan Center è uno spazio enorme, fatto di capannoni numerati che replicano, ognuno, una mini-Asia diversa. All'interno, ci trovi un po’ di tutto: associazioni culturali, ma anche negozi al dettaglio e all’ingrosso.
Quando ho visto World Hello e Rouge, le parole-sensazioni che mi sono venute in mente, sono state le seguenti: ansia, soffocamento, fede, schizofrenia, respiro e nostalgia. Perché?
Perché mi interessa catturare le contraddizioni anzi, direi soprattutto l’appropriazione culturale del capitalismo contemporaneo e la perdita di sacralità, di purezza che comporta. Ciò si vede soprattutto in Rouge. Appena ci si distanzia dalla casa degli indigeni, si piomba nel Carnevale di Cayenne, un evento fatto di musica, violenza, alcol, polizia, ecc. È come se il primo fosse un luogo sacro, sospeso in un mondo fatto di caos. Del resto, la contemporaneità è l’incombere di troppi stimoli. E per quanto riguarda la parola “schizofrenia” credo sia anche alimentata dal sovrapporsi continuo tra l’online e l’offline.
In un certo senso, tu questa schizofrenia contemporanea la catturi, ma non la rifiuti...
Non credo sia rifiutabile.
Nelle due opere, ci sono alcune panoramiche verticali che tendono a focalizzarsi su alcuni dettagli apparentemente irrilevanti: finestre diroccate, oggetti cattura-spiriti…
Diciamo che nel movimento verso l’alto c’è una narrazione. Mentre nel momento in cui mi fermo su un dettaglio, cambia totalmente il punto di vista e creo spaesamento. Il tutto da un ritmo particolare al filmato.
Tra i vari formati che utilizzi, c’è la fotografia analogica. Rifiuti il digitale?
Dopo aver imparato a fotografare con il digitale, oggi preferisco utilizzare l’analogico. Ma, più in generale, la tecnica non è qualcosa di fondamentale per me. Potrei sostituire una macchina fotografica con un’altra: non c’è feticismo in questo senso. Conta molto di più la multimedialità. Nei lavori che presento qui al Digitalive Romaeuropa Festival, ci sono fotografie analogiche, riprese fatte con una handycam anni ‘90 e registrazioni audio fatte con l’iPhone.
Qual è il tuo rapporto con l’arte?
Vedo l’arte ancora come qualcosa di utopico. Faccio fatica a dire con convinzione: “sì sono un artista”. Un po’ perchè mi sento in colpa, un po’ perché mi sembra di tirarmela.
In che senso?
Fare arte è un privilegio perché abbiamo la fortuna di occuparci di qualcosa che è fondamentalmente inutile, ma questa inutilità è la cosa più bella dell’arte stessa. Se non presentassi queste foto al Digitalive Romaeuropa Festival 2019, non accadrebbe nulla di particolare: gli artisti non salvano delle vite. Ma mi piace pensare che ci occupiamo di rendere la vita più piacevole o interessante; e di porre l’attenzione su qualcosa che va oltre i bisogni di base delle persone.
Lasciatelo dire: qui c’è tutta l’influenza dello spirito critico francese…
Intendiamoci: sono contentissima di essere qua e poter esporre il mio lavoro, ma non ho la presunzione di cambiare il mondo.
Però, da quello che dici, l’arte sembra decisamente avere un ruolo sociale. La byline del tuo sito web recita “My art will not help the hunger but will satisfy a carving”...
Letteralmente significa: “l’arte non può fermare la fame, ma soddisfare un appetito”. In al tri termini: sì, sicuramente l’arte ha un ruolo sociale, ma a me non interessa fare inchieste, o dare giudizi politico-sociali. Cerco semplicemente di documentare, in modo artistico, storie comuni. Di seguire queste figure nella vita di tutti i giorni: spesso si tratta di una quotidianità che è distante dalla nostra, qui in Italia. Da quel particolare, poi, provo a toccare tematiche più ampie. L’arte non può essere totalmente astratta, altrimenti diventa una sorta di manifestazione del proprio ego in una dimensione tangibile.
Ti definiresti un’idealista?
(Esita), penso di sì.
Come misuri il successo della tue opere?
Mi baso sulla curiosità e la reazione delle persone: quando qualcuno osserva l’opera dall’inizio alla fine e viene a farmi delle domande sui vari “perché” dietro all’installazione, mi ritengo soddisfatta.