L'Opra, viaggio tra pupi siciliani patrimonio Unesco
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Molti considerano Palermo un teatro a cielo aperto, ma anche su piccoli palcoscenici, da quasi 200 anni, va in scena una storia che si tramanda immutabile di padre in figlio: la storia dei pupari e dell'Opera dei Pupi. [Fotoracconto]
L'Opera dei Pupi siciliana (o Opra) è nata a Palermo nel 1826, ma affonda le sue radici ben più lontano nel tempo. Basti pensare che in Francia, le Les Chansons de geste, a cui sono ispirati sono apparse tra l'XI e XII secolo.
Questa forma di teatro popolare assunse col tempo i caratteri di "arte nazionale", che oltre ai pupi, comprendeva la struttura stessa dei teatrini, i cartelloni (locandine informative e riassuntive) e poi ancora i carretti siciliani o gli stilemi di certi ambulanti di cibo da strada. È anche grazie a queste estensioni che la maggior parte dei siciliani conosce l’Opra, come un’esperienza “innata”. I tratti di quest'arte sono artigianali, ma curati fino all'estremo, basti pensare ai cerchioni dei carretti decorati a mano con motivi floreali millimetrici.
Per molti artigiani l’opera dei pupi era un modo per uscire dalla crisi che investiva il Regno Spagnolo in quel periodo. E quando questa forma di spettacolo si impose, il teatro popolare finì con assumere un ruolo educativo per un popolo che nella quasi totalità era analfabeta. Il pubblico si immedesimava nelle storie dei pupi perché si affrontavano temi che erano cari alla personalità siciliana: la fede religiosa, l'ardore eroico, l'amor di patria ed infine il trionfo, grazie ad eroi mitici che rappresentavano la lotta del bene contro il male. Inconsapevolmente gli spettatori ritrovarono sè stessi in quella che era l’etica cavalleresca nella versione puparesca.
Ma oggi, l'Opra, è viva?
Negli anni '50 la diffusione del televisore ha dato un duro colpo al teatro. Ogni racconto infatti si divideva in 300/400 episodi, inscenati ogni pomeriggio e ogni sera, che avevano lo stesso ruolo di intrattenimento poi monopolizzato dello schermo.
Un altro colpo durissimo è arrivato negli anni '80, quando le autorità accusarono i pupi di sollecitare degli atteggiamenti mafiosi del pubblico e vennero chiusi diversi teatrini. Qualcuno, con coraggio, sostenne che si trattava di un abbaglio, ma era facile bruciarsi in compagnia della parola "mafia".Alla fine, nel 2001, l'Unesco ha registrato l'Opera dei Pupi come Capolavoro del patrimonio Orale e Immateriale dell'Umanità; un riconoscimento internazionale che condivide con sole altre 5 arti del territorio italiano. E allora perchè, ad oggi, ci sono soltanto tre teatrini nascosti tra i vicoli di Palermo?
Il riconoscimento ha fornito ampi spunti alla speculazione: basta essere in possesso di una collezione di pupi per essere riconosciuti come guardiani del bene immateriale, così i teatrini stabili non vengono riconosciuti come tali, ma alla stregua di quelli di un collezionista amatoriale.
I Maestri Pupari, una tradizione che non si è ancora perduta
I teatrini appartengono ai maestri pupari: Vincenzo Argento, Mimmo Cuticchio ed Enzo Mancuso.
Il laboratorio di mastro Vincenzo Argento è colmo all’inverosimile di marionette. Per entrare bisogna scansare una marionetta di pterodattilo. Lui si siede su una panchetta accanto a un tavolo con tutti gli arnesi per costruire e riparare le parti dei pupi e le scene. Lavora ogni giorno, da solo, e nel fine settimana fa recitare i suoi attori nel teatrino a poche decine di metri. Alcuni sostengono che forse sia “il più bravo costruttore di marionette” (Felice Cammarata, Pupi e carretti, Palermo, Italo-Americana Palma, 1976).
“Salve, sto facendo delle ricerche sui pupi; lei è il signor Vincenzo?”
“Prego.”
“Ho qua un libro in cui si parla di lei come il miglior costruttore di pupi…”.
“Sì, sono io”.
Durante le diverse mattinate trascorse in compagnia di Mastro Argento, viene fuori la passione di questo "oprante" che rivela il suo dispiacere nell’impossibilità di assumere degli apprendisti che possano tramandare la tradizione: l'affluenza del pubblico è troppo scarsa, ormai costituito perlopiù da scolaresche e turisti. "E si 'un vieni nuddu, nni taliamu nnu specchio" (se non viene nessuno non ci resta che guardarci allo specchio), dice lui. Ma ci sono altri aneddoti interessanti, su tutti l’antagonismo tra i pupari, che raramente collaborano, perché “Siamo tutti invidiosi del nostro lavoro e ognuno si sente il più bravo”, come ammette lo stesso Argento.
Continuiamo la ricerca arrivando al Teatrino Stabile "Carlo Magno", dei figli d'arte Mancuso, nel quartiere di Borgo Vecchio. Quando arriviamo Enzo Mancuso sta preparando uno spettacolo della passione di Ruggero, racconto diviso in 360 puntate. "Prima il pubblico conosceva la storia rappresentata, oggi il pubblico è casuale", spiega Mancuso. Per tali ragioni, il puparo deve fare un ulteriore lavoro sulla drammaturgia dei canovacci, ed è così che le vicende del mitico Ruggero vengono ridotte ad una quarantina di episodi più significativi.
Un puparo come Enzo Mancuso riesce a mantenere viva la sua antichissima tradizione familiare grazie ai sacrifici economici. Con aria desolata ricorda l'abbandono subito dall'assessorato al turismo. Il teatrino "Carlo Magno" difatti si trova alle spalle di un noto albergo, sempre pieno di turisti appena sbarcati al porto, ma quelli che vi si imbattono lo fanno quasi per caso, perchè manca l'informazione per i viaggiatori. L'altra fonte di pubblico è costituita dalle scolaresche, guidate soltanto dalla passione del singolo professore e non da una scelta didattica precisa.
E i pupi emigrano...
Ed per questo motivo che i pupi si vedono "costretti" a lasciare la patria, di tanto in tanto, per partecipare a festival europei di teatro di figura (è esistita una forma di teatro molto simile in Francia e in Belgio).
I pupari devono saper fare tutto: dalla costruzione del teatrino e dei pupi, alla regia degli spettacoli. Durante l'incontro col maestro Mancuso entra Pietro Sasso, scultore palermitano che lavorava per l'allestimento della sua mostra "Dialogando con il legno". I due sono amici, c'è rispetto per il lavoro reciproco. Pietro chiede: "È pronto?" Enzo risponde: "Certo che è pronto".
Davanti agli occhi mi appare la deposizione di un Cristo crocifisso, riparato da Enzo per l'amico Pietro. Una vera opera d'arte.
Poi c'è Mimmo Cuticchio, attore teatrale e cantastorie noto a livello internazionale, erede della tradizione dei "cuntisti" tutelata dall'Unesco. L'8 Giugno ha ricevuto il Premio Ravesi "Dal Testo allo Schermo", assegnato dal comitato d'onore del SalinaDocFest. In merito sull'Ansa si legge: "Il cunto epico-cavalleresco torna nel mondo con la sua carica utopica, a ricordarci che l'Europa deve essere Madre accogliente e che migrare non è un delitto. Se il documentario documenta la realtà raccontando una storia, Mimmo Cuticchio fa l'inverso: parte da grande racconto della tradizione epico-cavalleresca, per incidere sulla realtà contemporanea e parlarci del nostro destino nel mondo".
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"Ormai i paladini stanno conquistando il mondo, man man che acquistano la patina dell'oggetto d'antiquariato, ma per far questo hanno abbandonato la scena; e senza il fascino della scena il pupo non ha più significato". Aveva ragione Felice Cammarata (Pupi e carretti, Palermo, Italo-Americana Palma, 1976).