L’odissea (burocratica) dei ceceni a Parigi
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Mentre continuano gli scontri nel Caucaso, incontriamo i militanti del Comitato Cecenia.
È un freddo giovedì sera di dicembre, a Parigi. Nei locali di un centro sociale non lontano dalla Place de la Nation, il Comitato Cecenia è in piena attività. Nel piccolo ufficio dell'associazione, di fronte a una fila di vecchie sedie che fungono da sala d'aspetto, campeggia un poster che recita “Terrore laggiù, silenzio qui”. “Terrore” per le esazioni che continuano, anche tra i civili da parte delle forze russe nella repubblica caucasica ribelle. E “silenzio” per la copertura quasi inesistente della guerra da parte della stampa europea. Che può accedere alla regione caucasica soltanto attraverso permessi speciali o agli “Iastrjembski tours”, organizzati dall'omonimo capo della comunicazione del Governo ceceno filo-russo.
Paura di restare in Polonia
Attivo in tutta la Francia dal 1994, il Comitato Cecenia vuole «sensibilizzare l'opinione pubblica e le autorità sulla guerra in Cecenia, soprattutto sulla crudele asimmetria che vede contrapposti l'esercito russo alla popolazione civile», come ci racconta uno dei militanti del gruppo, Martin Rosselot. Ma l’associazione – i cui membri sono per lo più francesi, in quanto i ceceni temono ritorsioni sui loro familiari rimasti in patria – agisce anche per aiutare i ceceni che già vivono in Francia.
Sì perché i richiedenti d’asilo ceceni vivono un’estenuante odissea burocratica nella patria dei droits de l’homme. Le autorità francesi, infatti, devono controllare se la Francia è stato il primo paese dell'Unione Europea a cui sono approdati. In caso contrario, la legislazione comunitaria permette di rispedire i richiedenti nel primo paese europeo in cui hanno messo piede appena fuggiti dalla Cecenia. Spesso si tratta di Slovacchia, Repubblica ceca e, soprattutto, Polonia.
E proprio qui casca l’asino. Per Rosselot, infatti, «i ceceni non vogliono restare in Polonia, perché si sentono troppo vicini alla Russia e, quindi, non abbastanza sicuri. Il timore è di incappare in infiltrati russi». Non solo. In Polonia le speranze di ottenere lo status di rifugiato sono esigue: solo l'8% di successi contro il 20% in Francia secondo Rosselot. E, nell'attesa di sapere se dovranno essere rispediti nei paesi dell’Est dell’Ue o potranno chiedere l'asilo in Francia, i ceceni non ricevono sussidi. E non possono lavorare regolarmente.
L’esempio della Politkovskaia
Anche coloro che possono considerarsi più fortunati degli altri, quelli che hanno ottenuto lo status di rifugiati, devono ricominciare da zero, senza conoscere il francese, senza una casa e un lavoro. Ciononostante, sono in molti, qui a Place de la Nation, a pensare che la via del ritorno non è percorribile, almeno per il momento.
Ma come vedono la situazione in Cecenia? Il Comitato, nell'ultimo periodo, registra sempre più pessimismo tra i ceceni. L'indipendenza da Mosca resta l’obiettivo da raggiungere, ma i negoziati sembrano per il momento impossibili con Putin al potere e un'opposizione russa sempre più debole, anche dopo l’omicidio della giornalista Anna Politkovskaia. Rosselot non è meno critico verso l'Europa colpevole di «aver mantenuto un atteggiamento ipocrita, riconoscendo ai ceceni lo status di rifugiati, senza, però, tentare di trovare una soluzione politica del conflitto attraverso pressioni diplomatiche più efficaci sulla Russia». Unica eccezione, all'indomani del sanguinoso assedio di Grozny nel 2000, la timida sospensione del diritto di voto ai delegati russi del Consiglio dell'Europa. Mentre la stima delle vittime civili, dal ’91 ad oggi, oscilla tra le 50.000 e le 100.000.
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