lobbia, un cappello e firenze: l'altra casta di gian antonio stella
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Uno scandalo dimenticato, che sa di tabacco e faccendieri, plichi pericolosi e bombette smezzate. Sullo sfondo, una maestosa Firenze, effimera capitale di un'Italia tormentata. Presso La Libreria italiana del nono arrondissement di Parigi, Gian Antonio Stella presenta il suo ultimo romanzo "I misteri di Via dell'Amorino".
Sugli scaffali della libreria italiana, al civico 89 di rue du Faubourg Poissonnière, spicca “La casta” (Rizzoli), il suo libro-inchiesta più famoso, scritto insieme a Sergio Rizzo nel 2007 per spiegare, come recita il sottotitolo, “perché i politici italiani sono diventati intoccabili”. Ma Gian Antonio Stella, classe 1953, firma storica del Corriere della Sera, è qui in veste di romanziere, per parlare di un’altra casta, forse dimenticata, sepolta dai secoli, che profuma di tabacco e avventure, protagonista del suo ultimo romanzo, “I misteri di via dell’Amorino” (Rizzoli), davanti a una platea italo-francese.
TRA TABACCO E PAN DI ZUCCHERO
Stella smette le vesti di giornalista, anche quelle di romanziere, e si muta in teatrante, in burattinaio, orchestrando aneddoti e dettagli succulenti e animando i tanti personaggi del romanzo. Come in un feuilleton d’ottocentesca memoria, rivive lo scandalo della Regìa Tabacchi, quella che la cronaca dell’epoca aveva definito “la madre di tutte le tangenti”, che oggi ritorna nelle pagine di Stella, forse spinto a raccontarne la storia “visti gli scandali attuali nel Bel Paese”, come suggerisce una voce francese dalla platea. Una storia di bustarelle e sotterfugi, all’epoca in cui le tangenti si chiamavano “zuccherini” per i deputati e “pan di zucchero” per il re.
L’episodio è presto raccontato: nel luglio 1868, il Parlamento cede a una società privata la gestione dei tabacchi, per vent’anni, in cambio di una percentuale sulle vendite e di una somma anticipata pari a 180 milioni di lire da versare al Ministero delle Finanze. Un provvedimento approvato l’8 agosto, giorno in cui lo stesso re Vittorio Emanuele II, per evitare proteste e rimostranze, chiude il Parlamento e spedisce tutti i deputati in vacanza coatta. L’anno dopo, Cristiano Lobbia, ingegnere, politico, patriota italiano e integerrimo deputato asiaghese, non contento di essere messo a tacere, agita in parlamento due plichi, minacciando la platea di possedere testimonianze inconfutabili sull’iniquità della Regìa Tabacchi. Convocato dalla commissione per dettagli, Lobbia viene aggredito, nottetempo, la sera prima della deposizione. Vittima di un processo farsesco, che lo accusa di simulazione di attentato, Lobbia è dapprima condannato a un anno di penitenziario e a nulla è valsa la tardiva assoluzione. Lobbia non digerisce l'onta subita e, per sempre segnato dalla condanna, muore intriso di malinconia, dimenticato da tutti.
“Di Cristiano Lobbia non resta che un cappello”, spiega Stella. Tutti, infatti, sanno del celebre cappello alla Lobbia, ma in pochi ne conoscono la storia. In pochi hanno letto che, il 16 giugno del 1869, Lobbia fu aggredito in via dell’Amorino con un colpo sulla testa che schiacciò la sua bombetta e che un cappellaio di via dei Calzolari ne fece un copricapo, con la calotta nera smezzata, come avesse appena ricevuto un colpo di bastone da un attentatore. E che il caffè Biffi, in galleria, a Firenze, all’epoca, ne fece un piatto tipico, il “Plico alla Lobbia”, una sorta di cartoccio con all’interno una julienne di verdure.
DUMAS E L'AMANTE IN ROSA
Mentre la platea resta in silenzio, sfilano Giovanni Lanza, integerrimo politico italiano, oppostosi invano alla Regìa, e la sua vedova, che rifiutò la cospicua pensione offerta dai Savoia, e il letterato Giovanni Prati, la cui poesia dedicata al delatore ne fece un autore culto tra i giovani ribelli. E un’improbabile tuta da militare color rosa, che, secondo le ricerche, si dice fosse la tenuta preferita da Emilie Cordier, sfrenata amante ventenne di Alexandre Dumas, compagna dello scrittore, ormai quasi 70enne, cronista appassionato della spedizione dei mille garibaldini, a Milazzo. Compaiono le idee bislacche di Federico Menabrea, scienziato e politico italiano dal pensiero arguto, che pensava di acquistare una porzione di terra in Argentina e in Borneo, per potervi spedire terroni in quantità e risolvere una volta per tutte il problema del brigantaggio. Tutti accompagnati da documenti ufficiali, manoscritti e foto d'epoca, che Stella ha scovato con le sue ricerche.
“La scrittura mi distende”, rivela, “mi appassiona il poter cambiare linguaggio, sperimentare nuove forme narrative, dal giornalismo alla letteratura passando per il teatro”. Lo stesso romanzo, infatti, è nato da uno spettacolo sulla corruzione che il giornalista ha portato in scena con la Compagnia delle Acque. “La letteratura è un modo per rallentare il ritmo della redazione, anche se io sono sempre lento”, sbotta, “e diffido di chi si dice veloce nella scrittura degli articoli”, conclude, citando Curzio Malaparte, “che si prendeva almeno un pomeriggio per scrivere solo 30 righe”.
IL PATRIOTA DI ASIAGO
Non a caso Stella introduce il personaggio di Lobbia, presentandolo come un asiaghese innamorato di tante patrie, dalla città natale all’affascinante Venezia alla cara Italia. Da sempre vicino alle comunità di italiani all’estero, il giornalista si rivela sensibile alle tematiche dell’emigrazione, che ha affrontato nel libro “L’Orda” (Rizzoli), il cui sottotitolo, “quando gli albanesi eravamo noi”, ritorna nella conversazione. “Se dovessi scriverlo oggi, cambierei il sottotitolo, gli albanesi non sono affatto come noi, hanno saputo integrarsi molto meglio”, commenta. Asiaghese per nascita e spirito, Stella si dice legato a più orizzonti: “io sono asiaghese, veneto, italiano ed europeo”, afferma, “e ho orrore di chi ha un’idea di patria così ristretta, così piccola”. I presenti, ormai divisi tra due patrie e contesi da due linguaggi, non possono che essere d'accordo.