L'Italia e la cultura: se i giovani spiccano il volo
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La filiera delle imprese culturali italiane vale il 15% del pil del Belpaese. Eppure, per liberarsi dalla giungla dei contratti atipici che regnano nel settore, i giovani talenti prendono il volo per la Francia, Londra, o New York. Cosa resterà di ciò che una volta era il pozzo della cultura mondiale?
È fuori dal centro della città che nascono le nuove imprese torinesi. Senza ciminiere e canne fumarie, basta una scrivania, un computer e una connessione veloce. L’auricolare viene sostituita da un paio di cuffie, il rumore della catena di montaggio da una canzone indie. Lontano dai fumi di Mirafiori, in perfetto rapporto con il tessuto cittadino nascono le nuove fabbriche. Non producono automobili e pezze, ma cultura e creatività. Sono soprattutto giovani tra i 25 e i 35 anni che hanno deciso di lanciare la sfida alla crisi, colpendola nel suo profondo.
SPICCARE IL VOLO
Giuseppe Moreto è un videomaker fondatore della Dewrec, un’unità di produzione video, agile e moderna, che gestisce collettivamente con alcuni suoi coetanei, mettendo insieme competenze e passioni differenti. Giuseppe cerca di togliersi la pesante etichetta dell’eterno giovane reinventando la comunicazione e le immagini delle sue produzioni. Ci spiega che la grammatica comunicativa è cambiata radicalmente da quando produceva video per i Subsonica e questo è testimoniato dal paradosso di MTV che da canale musicale si è trasformato in uno spazio per la trasmissione di reality americani. Si pensa che ormai qualsiasi persona possa realizzare un video: la telecamera viene messa in cantina e sostituita da uno smartphone, ma cercare il valore aggiunto in ogni lavoro è la vera chiave del successo. Per azzeccare la giusta combinazione tra creatività e qualità ci vuole ben altro che una “app”. Si è pensato che, grazie al patrimonio artistico presente in Italia, la cultura si potesse semplicemente distribuire e non creare. Per questo ci siamo sforzati di pensare a delle reti d’informazione, di spiegare che il turismo è importante, costruire alcune (poche) strutture senza però accorgerci di quanto fosse grande l’occasione che stavamo buttando.
Così un esercito silenzioso di artisti, attori, grafici, filosofi, comunicatori battono la ritirata scappando verso la sfavillante Londra, tra i grattacieli di New York, i laghi del Canada o verso mete ancora più esotiche. Sono alla ricerca di un riconoscimento delle proprie capacità più che della coronazione di un sogno. L’Italia li caccia così, senza un saluto e senza il timore dell’addio, imbarcandoli su un volo low cost con un computer e una tavoletta grafica. Pochi temerari rimangono nel Belpaese, pochissimi credono ancora che con la cultura si possa mangiare. Eppure è così, a dispetto di quanto qualche ministro possa credere, la cultura e la creatività possono essere davvero il salvagente dalla crisi. Si può ripartire da ciò che sappiamo fare meglio, dall’ingegno che in millenni di storia siamo stati in grado di esprimere e far fruttare, dalla creatività, dalla bellezza, dall’estro.
Una giungla di contratti
Come in ogni settore, le fabbriche della cultura si portano dietro delle filiere di conoscenze e innovazione. La conoscenza acquisita non viene consumata, non si brucia in un alto forno né evapora, rimane all’interno della società alimentando esternalità in ogni settore produttivo. Tutti possiamo godere dei benefici dell’investimento in sapere.
In un periodo in cui l’unica soluzione alla disoccupazione giovanile sembra essere la diminuzione delle tutele e dei diritti, nessuno si cura di creare nuove professioni. In un mondo che cambia a vista d’occhio, in cui miliardi di calcoli possono essere svolti correttamente in una frazione di millisecondo nessuno si cura di pensare a nuove figure professionali. Si cercano solamente competenze in grado di quantificare il mondo e la sua complessità e mai qualcuno che possa qualificarlo. Eppure, le imprese culturali risentono meno il peso della crisi: hanno un valore aggiunto superiore ai 76 miliardi pari al 5,4% del pil. Danno un’occupazione qualificata a 140 mila persone e tantissimi giovani che fanno della capacità di reinventarsi un mestiere. Quello culturale è il settore che ha le maggiori ricadute sugli altri, vanta un moltiplicatore pari a 1.7: significa che per ogni euro di valore aggiunto creato se ne attivano mediamente 1.7 in altri settori. Così, l’intera filiera culturale incide per il 15.3% del pil.
Eppure, a creare questi numeri è un esercito di precari che in silenzio combatte nella giungla dei contratti, delle norme, dei riconoscimenti. Sono le persone come Marco, giovane attore teatrale torinese che stufo di un’asfissiante precarietà scappa in Francia per recitare, o Alessandra, giovane web designer di talento, che, dopo aver concluso il suo stage, frequenta un corso di inglese perché “non si sa mai”.
L’Italia ha sempre trattato la cultura come un pozzo di petrolio: ci siamo più curati di estrarre la cultura presente nel terreno italiano sperando che non terminasse. Forse era meglio considerarla come un frutteto e coltivarla negli anni così da potersi rigenerare autonomamente ogni primavera.