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L'impossibilità di tradurre il tempo. Quando il passato remoto va in sciopero

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(Foto: Flickr, Axell)

Nella lingua di Dante, chissà perché, il passato remoto ha lasciato posto al passato prossimo. Nei miei idilliaci ricordi di studentessa erasmus s'inserisce anche quello di un professore di lingua spagnola per stranieri straordinario, dal quale ho tratto diversi spunti nell'insegnamento dell'italiano per stranieri.

Si chiama José Plácido Ruiz Campillo, anzi spero che, dal momento che lo cito come fonte autorevole, arrivi fin qui e si ricordi di me. :-) Lo cito in questa sede, perché mi ha illuminato su diverse cose, e in primis sull'utilizzo del passato remoto e del passato prossimo (e non dimentichiamo la sua splendida fissazione sulla logicità del congiuntivo).

Non è difficile capire perché in italiano e in francese il passato remoto abbia lasciato spazio al prossimo: finché si tratta di verbi come amai, sentii, ricordai, a parte il fatto che suona come un racconto boccacciesco, o al massimo come un italoparlante del sud Italia, non ci sono problemi di coniugazione. Ma se pensiamo al classico esempio irregolare dei quiz tipo Chi vuol esser milionario, passato remoto di cuocere?, in molti faticano a trovare la risposta, me compresa. A proposito, qual è la risposta? ;-) Idem con pommes de terre per quanto riguarda i cugini d'Oltralpe. Io, da meticolosa studentella, non ricordo di aver mai preso seriamente in considerazione l'idea di ricordarmi, oltre le famose provette liceali, i verbi al passé simple. Si studiano solo in caso di necessità, ovvero in presenza di insegnante puntiglioso e precisino. Pensiamo al solo verbo avoir: j'eus, tu eus, il eut, nous eûmes, vous eûtes, ils eurent. Se me lo ritrovo in uno dei mattoni che sono solita leggermi nelle serate di pioggia come questa, tipo Madame Bovary o Le rouge et le noir, mi viene da guardare sul vocabolario. E io ho vissuto un anno in Francia. Cosa significa tutto questo? Non solo che lo scarto tra lingua parlata e lingua scritta è notevole. Sì, certo, anche. Se in italiano si tratta di una certa pigrizia dei parlanti per l'eccessiva quantità di irregolari, in francese si tratta di una questione di evoluzione linguistica. Poiché c'era un'irregolarità nella coniugazione, risolta nel patois con una generalizzazione in -it ma mai accettata dagli accademici, i parlanti hanno preferito dimenticarsene e passare al passato prossimo.

Ma in spagnolo questo non è avvenuto. Lo spagnolo parlante preferisce risparmiare in fonetica, infilandoti un'aspirazione al posto di una esse, uccidendo la -d- dei participi passati (no me he enterado si pronuncia no me é enterao, soprattutto in Andalusia), ma il passato remoto è intoccabile. Ayer me fue al estadio para ver la final. L'incallito tifoso del Barça direbbe così (o lo direbbe in catalano, ma qui entriamo in altri discorsi...). Invece un italiano userebbe il passato prossimo: Ieri sono stato allo stadio a vedere la finale. Cosa succede psicologicamente utilizzando i due tempi? Il primo è sentito già come un evento concluso, che non ha ripercussioni sul presente. Con il passato prossimo, invece, è come se l'evento avesse ancora una qualche influenza sul presente: il che potrebbe anche essere, nel caso la squadra del cuore avesse vinto la partita e il tifoso in questione avesse festeggiato alzando un po' troppo il gomito... Se dicessi in spagnolo: Ayer me he ido al estadio para ver la final e poi m'interrompessi, l'interlocutore mi direbbe: Bueno, y qué?: lo sentirebbe come discorso non concluso. Se notiamo, in effetti, il passato prossimo italiano, come in francese, spagnolo e portoghese, è un tempo composto. Ma composto da che? Ma dal presente, che risiede nell'ausiliare. E non è un caso: c'è un legame con il tempo fisico presente, o meglio con la percezione che abbiamo noi del tempo (fisici, illuminateci...).

Tutto questo polpettone per arrivare a cosa? Non c'è teoria senza pratica, miei cari. Se usiamo un passato prossimo per tradurre un passato remoto ispanico, non dimentichiamoci di specificare un indicatore temporale che delimiti l'azione nel passato, anche se nell'originale non c'è. Tanto più che è meglio chiarire ulteriormente una frase, aggiungendo dettagli, che non rimanere oscuri.