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L’immigrazione: una risorsa per l'’Unione

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La storia insegna che si possono deviare i corsi dei fiumi, le correnti del traffico, collegare i mari con gli oceani, ma non si può arrestare il flusso di uomini in lotta per la loro sopravvivenza, neanche a “cannonate”.

L’immigrazione non è un'opzione per l’Europa. La globalizzazione crescente dei mercati e della produzione, la rivoluzione dell'informazione, la crisi demografica delle società avanzate, l'instabilità politica nel mondo e le disparità di benessere provocano inevitabilmente un aumento dei flussi migratori verso destini migliori tra i quali l’Europa risulta essere quello più ambito.

Davanti a questo scenario l’Unione sembra chiudersi nella sua “Fortezza Schengen”, impaurita com’è da un fenomeno che non sa controllare e che gli ricorda continuamente che il proprio futuro non si deciderà soltanto all’interno delle proprie frontiere. Eppure un'immigrazione gestita bene sarebbe necessaria per rispondere al fabbisogno futuro del mercato del lavoro europeo.

L'Europa ha infatti bisogno di immigrati per il suo sviluppo produttivo e per compensare la diminuzione di forza lavoro giovane connessa alla crisi demografica. Nei prossimi vent'anni infatti, secondo le stime più recenti delle Nazioni Unite, le persone in età lavorativa (20-59 anni) in Europa, al netto delle migrazioni, diminuiranno di oltre 13 milioni di unità, pari al 6,4% del totale (1). Ma l’Unione davanti a tutto questo sembra serrare gli occhi e lascia l’incombenza di disciplinare l’immigrazione agli Stati nazionali. Tutt’oggi purtroppo la regolazione dei flussi di persone è infatti considerata dai singoli Stati un elemento strategico per la sicurezza nazionale, come se si parlasse di “difesa” della patria nei confronti di un “attacco” esterno. Da questo ne scaturisce una evidente debolezza dell’Unione nel gestire il fenomeno dell’immigrazione. Se il vertice di Tampere del 1999 ha affermato l’esigenza di politiche comuni per l’asilo e l’immigrazione nella concretezza però le buone intenzioni si sono tradotte in leggi nazionali sempre più dure e sempre meno efficaci.

In Italia la latitanza europea ha prodotto la legge Bossi-Fini, esempio di come l’esaltazione delle attività repressive e di controllo non serve a nulla di fronte alla volontà degli esseri umani. Dopo mesi di silenzio in questi giorni, con l’arrivo del bel tempo e con il mare calmo, è infatti ripreso il traffico delle “imbarcazioni”, cariche di migranti disperati e di richiedenti asilo, verso le nostre coste. L’Italia risponde con la militarizzazione e il pattugliamento delle aree interessate dall’immigrazione clandestina producendo come unico effetto quello di aumentare i rischi di nuove tragedie. E nuove tragedie avvengono ogni giorno in quel mare di frontiera, il Canale di Sicilia, che ogni estate si trasforma in una sorta di cimitero subacqueo. La storia insegna che si possono deviare i corsi dei fiumi, le correnti del traffico, collegare i mari con gli oceani, ma non si può arrestare il flusso di uomini in lotta per la loro sopravvivenza, neanche a “cannonate” (2).

L’Unione Europea dovrà assumersi la gestione del fenomeno dell’immigrazione attraverso lo sviluppo di una politica comune in materia migratoria che miri ad un’intensificazione della cooperazione con i paesi terzi, sia quelli di origine sia quelli di transito dei flussi migratori. Il compito non è assolutamente semplice anche perché per le società di origine le migrazioni costituiscono, nel breve periodo, un duplice potenziale: da una parte riducono la pressione demografica di una popolazione in eccesso che, specie nelle fasce giovanili, è spesso sottoccupata o non occupata e dall’altra aumentano le risorse disponibili per le famiglie attraverso le rimesse. Per questi motivi spesso l’atteggiamento dei paesi terzi non è incline ad una cooperazione nella gestione dei flussi migratori.

Nel lungo periodo però le migrazioni non diventano affatto un’opportunità di sviluppo per i paesi “emergenti” poiché non esistono ancora oggi strumenti che incentivino la stabilità finanziaria di queste zone, ad esempio accordi multilaterali che incoraggino un utilizzo produttivo delle risorse trasferite, il ritorno degli emigranti nei propri paesi e lo sviluppo in loco di imprese.

L’Unione Europea dovrà quindi introdurre la propria politica migratoria all’interno dei già avanzati “progetti di stabilità” che riguardano ad esempio i Balcani, il Medio Oriente e l’Africa settentrionale. Per essere efficaci gli obiettivi di una politica comune in materia di immigrazione illegale devono inserirsi nel contesto globale delle relazioni dell'Unione con i paesi terzi e non restare alla discrezione degli accordi bilaterali tra un paese extracomunitario ed uno membro dell’U.E.

A quest’ultimo, infatti, l’immigrazione clandestina non sembra dispiacere poi tanto. L’immigrato irregolare fa comodo: si accontenta di miseri stipendi, paga affitti vergognosi, non protesta, si adatta a qualsiasi lavoro, anche a quelli che gli europei non vogliono più fare, e può essere rinchiuso o cacciato via in qualsiasi momento.

Colmare in questo modo il “debito demografico” presente in molte aree d’Europa non è però moralmente accettabile. Spesso l’Europa si dichiara esempio di un vivere civile più giusto: alle dichiarazioni devono quindi seguire i fatti. L’Europa deve regolare il più possibile i flussi migratori, di cui del resto ne ha un estremo bisogno fisiologico, tenendo conto non solo della situazione dei paesi di origine e della capacità di accoglienza dei singoli Stati membri ma anche ad esempio dei legami storici e culturali che legano entrambi le parti. Questo presupposto porterebbe ad un’integrazione più incisiva che garantirebbe agli immigrati diritti e doveri analoghi a quelli dei cittadini de l’U.E. Inoltre, così facendo, diminuirebbero sensibilmente anche le folate di discriminazione, razzismo e xenofobia che attraversano sovente il nostro continente.

L’immigrazione è una risorsa di cui l’Europa ha un grande bisogno, sta a noi gestirla al meglio.

(1) Bandarin Francesco, L’Europa di fronte al fenomeno migratorio, “Europa, Europe”, Fondazione Istituto Gramsci, numero 6/2000.

(2) Il riferimento è all’espressione usata dal ministro Bossi in un’intervista al Corriere della Sera del 16 giugno 2003.