L'ideale meschino della pace a tutti i costi
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Una democrazia può fare la guerra?
Erasmo da Rotterdam all'epoca della guerra dei trent'anni ci consegnava una massima storica: "Chi ama la guerra non l'ha vista in faccia!".
Ma non possiamo accettare un dibattito sulla guerra come risposta all'interrogativo "chi ama la guerra?"
Scopriremmo che su questo punto siamo davvero tutti d'accordo, eppure non riusciremmo a spiegare perchè nonostante l'unanimità più universale le guerre persistono e continuano a produrre disperazione, morte e terrore.
In un certo senso, dunque, siamo tutti pacifisti, ma il pacifismo universale afferma che la guerra è un male (anzi, il male) e che in nessun caso la violenza può costituire uno strumento della politica.
La storia e le cronache più recenti dimostrano però che le guerre esistono e costituiscono uno dei tratti e dei paradossi della socialità umana.
Non bisogna chiedersi chi ama la guerra, ma chi vuole limitare e con quali metodi l'uso della forza (o della violenza legittima, che dir si voglia).
Su queste premesse, come il guerrafondaio, il pacifista "costi-quel-che-costi" non ha dardi nel suo arco, se non l'appello emozionale ad un "buonismo" buono (e sempre più buono) per tutte le stagioni.
Fortunatamente, nessuno ha il coraggio di difendere pubblicamente le tesi dell'interventismo "costi-quel-che-costi", ma una schiera di terzomondisti, noglobal, pseudo-operatori umanitari e anime belle di ogni origine e provenienza, agitano le bandiere di un neutralismo accecato che giova solo ai banditi.
Esattamente come le grandi utopie del novecento il pacifismo ha un sogno, un progetto di società, un'utopia: un mondo senza guerre. Per il comunismo il sogno era un mondo senza classi e senza stato. Per il nazismo era l'illusione del dovere morale della razza ariana e dell'igiene del mondo.
Chi non vorrebbe un mondo senza guerra? Chi non vorrebbe un mondo di eguali? Chi non vorrebbe...? Chi non vorrebbe...?
In tutti questi casi, nessun costo è troppo elevato di fronte alla realizzazione del sogno, dell'obiettivo ultimo dell'utopia.
Così come per i comunisti si può sacrificare la libertà individuale sull'altare della società senza classi allo stesso modo per i pacifisti si può e si deve sacrificare la difesa dei diritti dei popoli e individuali pur di non cedere mai alla tentazione di premere i grilletto. Come se nessuna aggressione fosse tanto grave da meritare una risposta.
In realtà, l'unico orizzonte possibile per la pace è la società aperta, una società di convivenza civile tra diverse culture e visioni del mondo, una società fondata sul diritto e non sulla violenza. La società aperta è la società della tolleranza. Ma anche dell'intolleranza nei confronti degli intolleranti. Una società aperta a tutti tranne che agli intolleranti.
Il pacifismo non rende conto dell'esistenza delle guerre, ma non serve nemmeno ad evitarne di nuove, nè a garantire un mondo più giusto.
Il pacifismo è il cavallo di troia degli intolleranti per distruggere le fondamenta della società aperta.
Oltre i guerrafondai ed i pacifisti esiste una terza via quella della non-violenza ghandiana.
Il non-violento si pone l'obiettivo della pace (come il pacifista), ma sa che non c'è pace senza libertà e senza giustizia. E sa distinguere tra la pace dei cimiteri ottenuta con la resa incondizionata ed anticipata e la pace nella libertà, la pace da sorvegliare nella e dalla società aperta.
E' per questo che la società aperta può e deve (se necessario) difendersi. Può e deve ricorrere a tutti i mezzi necessari, compresa la forza. Compresa la guerra, anche se può sembrare un paradosso. Anche se può sembrare cinico. Anche se vediamo dei falchi agitarsi in nome della libertà.