Libertà di stampa, sete di giustizia, voglia di democrazia: Tunisi cerca il suo nuovo volto.
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Ad un mese dallo scoppio della rivoluzione che ha contagiato tutto il Nord Africa ed il Medio Oriente, Tunisi riprende vita, i suoi abitanti riscoprono le libertà perdute. Reportage tra fenicotteri, alberghi chiusi, mercanti e cittadini speranzosi.
Dall’aereo, Tunisi è una distesa di case bianche arroccate laddove il lago si abbraccia col mare - il nostro stesso Mediterraneo, ma visto a testa in giù. Fenicotteri rosa increspano la superficie dell’acqua, camminandovi sopra leggeri, emuli di Gesù Cristo. Per le strade, il profumo di gelsomino e tè ai pinoli investe l’avventore che la visita nel momento più eccitante della sua storia recente. Gli altri sensi, nel frattempo, sono divisi tra lo stordimento dovuto ai colpi di clacson del caos attorno a Avenue Bourghiba e la visione di carri armati a monitorare banche, viali, palazzi presidenziali. E persino qualche supermercato.
"Di questi tempi i turisti sono ancora un’illusione”
Dopo gli attacchi alla catena Monoprix (finita nella “lista nera” di aziende vicine alla famiglia Trabelsi, quella della moglie del presidente Ben Ali), infatti, i clienti del Carrefour vengono gentilmente invitati a incanalarsi dal parcheggio verso l’unica entrata non sprangata da una doppia riga di filo spinato elettrificato. L’hotel che doveva ospitarmi è chiuso: una sommossa aizzata da malintenzionati infiltrati ha indotto il manager del Regency alla chiusura. “Tanto di questi tempi i turisti sono ancora un’illusione”, mi spiega. Vengo spostato al Ramada, poco distante, nella zona tra la cittadina di La Marsa ed lo splendido borgo Sidi Bou Said, dove comunque si temono ripercussioni ed effetti-domino, ed il personale è pertanto ridotto al minimo.
I tunisini oggi stanno riscoprendo – ma per molti di loro è una novità assoluta - il piacere di informarsi alla radio, alla televisione, sui giornali. E, da qualche settimana a questa parte, anche su internet, dopo che il tappo di Facebook, Twitter e Youtube è finalmente saltato. Ma è soprattutto in strada che le voci si inseguono. Ed è ancora la strada il principale veicolo di informazione, in un paese in cui la classe giornalistica è stata anestetizzata dall’inazione per decenni, abituata alla pappa pronta dell’ufficio stampa presidenziale: argomento, svolgimento ed aperture già pronti sulla scrivania, da pubblicare così come erano stati diramati.
Libertà di stampa
Il giornale La Presse si sta ritagliando un ruolo di primo piano nel risveglio da questo torpore mediatico. Prova ne sia che nel primo giorno in cui venne tolto il coprifuoco serale (martedì 15 febbraio) il giornale usciva in edicola con un’inedita iniziativa alla Orson Welles, post-datando l’edizione alla data simbolica del 16 giugno 2014, giorno in cui si sarebbero dovute svolgere le ennesime elezioni-farsa da risolversi con percentuali bulgare per il Presidentissimo Ben Ali. Il divertissement dura diverse pagine, e parla ancora di come il Museo della Rivoluzione Tunisina sia entrato a far parte della lista Unesco dei 50 siti più visitati al mondo, o ancora di quanto tremino le gambe dei brasiliani chiamati all’esordio al loro mondiale di fronte alle Aquile di Cartagine.
Per le strade della Medina, il senso d’orgoglio supera anche la paura: “Finalmente si è capito quanto valesse quel 94% di consensi di Ben Ali. Il popolo arabo ha fatto vedere quello che può fare: sono orgoglioso che la rivolta sia partita di qui, che la Tunisia abbia dato l’esempio a tutti i fratelli nordafricani”. Naceur ha 44 anni ed una bancarella di oggettistica ed artigianato locale a Sidi Bou Said. Quando gli compriamo un paio di pezzi di artigianato locale, si inchina ossequioso: “Grazie signore per aver contribuito a rilanciare l’economia della Tunisia”, ringrazia alla fine di una negoziazione comunque estenuante basata sulla litania “vivi e lascia vivere”. Poi, in assenza di altri clienti a cui dedicare le sue attenzioni, si lascia andare a confidenze con gli avventori: “In molti, i più poveri, partono per Lampedusa o la Sicilia su imbarcazioni di fortuna ed arrivano a pagare fino a 4000 dinari (circa 2000 euro) per farsi traghettare in Italia”. Ma il Belpaese, checché ne dica Maroni, raramente è la meta finale: la vera meta dei tunisini, in realtà, è spesso la Francia. E non solo per una lapalissiana questione di lingua, quanto di prospettive ed appeal.
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"Ce lo devono portare qui, con la bara ancora aperta!"
Adel, 49 anni, la carnagione scura e seccata dalla sabbia di Tozeur dove ha passato l’infanzia, ci confessa che teme che siano i militari a prendere il potere. Ma la realtà è che dopo il riprovevole sciacallaggio dei giorni immediatamente successivi alla rivolta, anche gli scioperi ora stanno finendo, ed il paese sembra lentamente avviarsi verso la ripresa di una vita normale. Non c’è più il coprifuoco, e la gente lentamente trova il coraggio di uscire anche la sera.Nel frattempo, l’astio contro l’ex presidente e la sua famiglia non si lascia impietosire neppure dalle informazioni sullo stato di salute di Ben Ali: Massimo, 35 anni, un immigrato italiano di terza generazione, non vuole certo farsi ingannare: “Ce lo devono portare qui, ma con la bara ancora aperta, che si possa vedere che è lui. Ed è meglio per lui che non si faccia vedere vivo nel nostro Paese, perché la sua fine sarebbe ben peggiore di qualsiasi decorso della sua presunta malattia”.
La rivolta partita dal deserto intorno a Tozeur ha camminato veloce, sulle ali dei social network e del passaparola, spodestando dittature e facendo vacillare i grandi regimi del mondo arabo. Un ragazzo che ho incontrato in giornata mi chiede l’amicizia su Facebook. Non ha ancora un’immagine del profilo. La metafora si palesa lampante: come lui, il volto di questo paese è ancora tutto da disegnare.
Foto: homepage (cc) (cc) John Yavuz Can/flickr; La Presse screenshot da lapresse.tn; Sidi Bou Said (cc) jean-pierre jeannin/flickr