L’europeismo nella torre d’avorio
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Lorenzo MorselliQuattro anni fa, Joschka Fischer si era dichiarato a favore di una federazione europea. Da allora, il dibattito sul futuro europeo rimane sottotono. Nonostante Habermas...
“Il giorno verrà, in cui tu Francia, tu Russia, tu Inghilterra e tu Germania, voi tutte, Nazioni del continente, senza perdere le vostre qualità e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete strettamente in un’unione superiore, e costituirete la confederazione europea.”
Così si esprimeva il grande scrittore francese Victor Hugo sul futuro dell’Europa nel 1849. Qualche politico europeo si sognerebbe di poter oggi presentare una visione federale dell’Europa all’opinione pubblica in termini cosi poetici, e tuttavia nessun politico è neppure in grado di presentare tale visione, neppure in gergo amministrativo.
Sono passati quattro anni, da quando Joschka Fischer, fece il suo arcinoto discorso dell’Università Humboldt, a Berlino, assumendo in quell’occasione non più il ruolo talvolta restrittivo di ministro degli affari esteri tedesco, bensì esplicitamente quello di intellettuale europeo. Cos’è successo da allora? A che punto sta il dibattito sul federalismo europeo dopo il blocco della Convenzione? Quel che ci aspetta nei principali titoli della stampa europea sul tema del federalismo è in maggior parte un silenzio indifferente. Editorialisti e intellettuali sembrano interamente ed esclusivamente assorbiti dalla continua divisione dell’Europa sulla guerra in Iraq, dall’allargamento ad est, e – last but not least – dalle nuove minacce terroriste. La discussione più essenziale su dove l’integrazione europea ci porterà o dovrebbe portarci, si tiene sopratutto nei ristretti circoli universitari.
Il dibattito sul federalismo s’impolvera nelle università
Nonostante tutti gli insuccessi, il politologo svizzero Dusan Sidjanski vede l’inizio di una nuova era per il federalismo, giacché oggi gli Stati dovrebbero riconoscere che “il federalismo è l’unica forma di organizzazione sociale e politica che possa garantire la perennità sia delle identità regionali quanto di quelle nazionali”. La sua visione di un’Europa federale è il modello di federazione che Fischer proponeva nel suo discorso: il passaggio dalla Confederazione di Stati che è l’Unione attuale a una federazione europea come Robert Schuman e Spinelli l’avevano chiesta 50 anni fa. Esso non significa nulla di meno che un parlamento europeo e un governo pure europeo, con effettive competenze legislative ed esecutive. Tuttavia Fischer indica che “la vecchia concezione di uno Stato federale europeo che, in qualità di nuovo sovrano, verrebbe a sciogliere i vecchi Stati nazionali e le loro democrazie, s’è dimostrata una costruzione teorica che va al di là delle realtà europee attuali”. Varrebbe piuttosto la pena di “delegare alla federazione le sovranità essenziali, e solo e unicamente quello che sarebbe da regolare necessariamente a livello europeo, il resto dovendo però rimanere di competenza nazionale.”
Questa concezione si avvicina al modello dello scrittore svizzero Denis de Rougemont di un’Europa delle regioni, quegli Stati Uniti d’Europa la cui regola d’oro sarebbe di lasciare alle identità nazionali e regionali spazio e partecipazione sufficiente. Infatti: “la cultura europea è la base per una federazione europea.” Questa seducente formulazione vale anche retrospettivamente per il cofondatore neofunzionalista dell’attuale UnioneJean Monnet che era solito dire: “se potessimo incominciare dall’inizio, incomincerei dalla cultura.”
Tutto questo è stato ben riflettuto, brillantemente analizzato e scritto con eloquenza. Sfortunatamente, però, Fischer, purtroppo già percepito come capofila dei federalisti, una volta calzati nuovamente i panni di ministro degli esteri, ha subito dimenticato l’intellettuale europeo che c’era in lui. E così, da quando è fallita la Costituzione, il dibattito s’impolvera nella Torre d’Avorio delle scienze politiche europee. Questa nostra élite scientifica europea non sembra veramente essere attualmente capace di offrire al tema federalismo un pubblico più largo, figuriamoci portarlo sull’agenda politica. Avranno bisogno i federalisti europei – come altri intellettuali che non vogliono lasciarsi chiamare “vecchi Europei” – di una spinta da parte del loro modello federale, ossia l’America?
La “Vecchia Europa” intellettuale
Gli editoriali l’avevano chiamata con entusiasmo la nascita di uno spazio pubblico europeo. Mobilizzati da Jürgen Habermas, sette intellettuali avevano preso posizione in una mezza dozzina di quotidiani europei sulla situazione nel continente. Habermas stesso, assieme al suo vecchio contraddittore filosofico Jacques Derrida, gli scrittori Adolf Muschg e Umberto Eco e i filosofi Gianni Vattimo, Fernando Savater e Richard Rorty.
La messa in scena era spettacolare, e fervidamente discusso fu anche il messaggio: secondo la controproposta di Habermas alla “lettera degli Otto”, non vi dovrebbe permanere nessun residuo di separatismo nella futura Costituzione europea, giacché il ruolo dell’Europa consisterebbe nel far da contrappeso all’unilateralismo egemonico degli Stati Uniti. “Solo un’ “Europa-nucleo”, la cooperazione rafforzata di un’avanguardia di stati impegnati a approfondire l’integrazione potrebbe riuscirvi, appoggiandosi su una politica estera e di sicurezza comune. Per quanto queste idee siano state criticate, con questo dibattito sull’Europa, l’intellettuale Habermas ha mostrato come possa funzionare un dibattito europeo. Se i federalisti tra gli intellettuali vogliono ancora credere alla possibile realizzazione dei loro ideali, dovrebbero osare un’iniziativa simile. Altrimenti, si vedranno rimproverate quello che Habermas, critico di se stesso, riconobbe nel suo articolo: “Se il tema finora non ce l’ha fatta a figurare sull’agenda politica, il fallimento è di noi intellettuali.”
Translated from Europa im Elfenbeinturm