L’Europa delle morti sul lavoro
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Mentre si guarda alla Danimarca come profeta della flexsecurity, sono in pochi a dire che nella “nazione più felice del mondo” (secondo uno studio Oms-Unesco) al 2006 le morti sul lavoro erano in aumento per il terzo anno consecutivo, gli incidenti comuni da quattro, quelli gravi da cinque. Un panorama dell’Europa dell’insicurezza sul lavoro.
Il laburista David Blunkett, segretario di Stato britannico per il Lavoro e le Pensioni, affermava lo scorso settembre che «tutti devono lavorare finché ne sono fisicamente capaci», sostenendo che questo manterrebbe in forma la popolazione. In molti casi vorrebbe dire lavorare fino alla tomba. Ma il lavoro occupa sempre più la vita degli europei, quando ancora la polemica sulle 65 ore non si è ancora spenta. «Produci, consuma, crepa» cantava negli anni Ottanta il gruppo punk italiano CCCP.
Secondo i dati dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) negli anni 2003-2005 i morti regolari sul lavoro nell’Unione europea sono stati 18.648, gli infortunati quasi 14 milioni. Stando alle cifre sulle morti annuali ogni 100 mila abitanti, il paese dove è più pericoloso lavorare è il Portogallo (3,2): seguono i Paesi Baltici e Malta tra 2,2 e 2,8. Oscillano tra 1,8 e 1,9 Repubblica Ceca, Spagna e Romania, nazioni che presentano una situazione leggermente peggiore di Bulgaria, Irlanda, Italia, Cipro, Austria e Slovacchia, che si collocano intorno alla media europea (1,5-1,6). I più sicuri? Sono Regno Unito (0,3) e Paesi Bassi (0,4).
Le morti silenziose
Queste cifre che non includono un numero di morti impossibile da definire: quello dei lavoratori irregolari, spesso immigrati clandestini, i cui corpi vengono fatti sparire, occultati dai datori di lavoro o dagli intermediari nel reclutamento. I familiari difficilmente riescono a far presente alle autorità locali la scomparsa dei cari, per problemi linguistici o perché non sanno con precisione dove questi fossero impiegati, per il lassismo di autorità a volte conniventi e per la difficoltà di affrontare viaggi costosi. Oltre 100 polacchi sono scomparsi nelle campagne della Puglia – il tacco d’Italia – dove si coltiva il pomodoro, e 14 sono stati rinvenuti morti in circostanze misteriose. Le lettere dei parenti agli organi istituzionali rimasero senza risposta, almeno finché la polizia polacca non decise nel 2006 di pubblicare un appello sul proprio sito web. Alessandro Leogrande ha dedicato al caso il libro-inchiesta Uomini e Caporali (Mondadori, 2008), ma il problema riguarda tutta l’Europa, anche perché sono «molte le ragazze sbattute dai campi al marciapiede. E con i corpi arrivano armi e droga, il trittico delle mafie», scrive Paola Zanuttini su Il Venerdì di Repubblica.Le cifre dell’Oms non includono nemmeno le morti dovute a malattie professionali, che secondo le stime dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro sono oltre 140 mila all’anno.
Stragi dimenticate
Il rapporto Oms ci dice chiaramente che la metà delle morti avvengono in due settori: l’edilizia (30%) e l’industria (20%). E se la prima si caratterizza proprio per l’elevato numero di lavoratori irregolari, senza potere contrattuale e vittime del caporalato, la seconda è il luogo degli incidenti che più colpiscono l’immaginario collettivo. Le stragi dovute ad incendi, esplosioni e dispersione di sostanze chimiche sono numerose, e di frequente hanno ripercussioni sull’ambiente e sulla salute degli abitanti. Spesso si ricordano solo quelle che hanno comportato molti morti: i 28 dell’impianto chimico della Nypro a Flixborough in Inghilterra nel 1974, i 23 del deposito della SE Fireworks di Enschede in Olanda nel 2000. Purtroppo si tratta di tragedie la cui risonanza fatica a varcare i confini nazionali e insediarsi in una coscienza collettiva europea. Coscienza che dovrebbe tenere conto anche dei disastri avvenuti al di fuori dell’Ue: dal più sanguinoso, il disastro di Bhopal in India che provocò oltre 2000 vittime e decine di migliaia di avvelenamenti con conseguenze mortali, al più recente, le esplosioni nel deposito d’armi di Gerdec in Albania che il 15 marzo 2008 hanno ucciso 23 persone. In entrambi i casi si tratta d’impianti in smantellamento, e in entrambi i casi c’è il coinvolgimento di multinazionali americane, rispettivamente la Union Carbide (poi acquisita dalla Dow Chimical) e la Southern Ammunition Company.
I media europei sono sensibili al problema? Non lo sono in Polonia, dove gli incidenti minerari sono vissuti come «normali, non ne parliamo molto» dice Anna da Cracovia, e il disastro dell’Halemba del 2006 (il peggiore dagli anni Settanta; un’esplosione di grisù ha provocato la morte di 23 persone) nella città di Ruda Śląska non pare aver scosso particolarmente l’opinione pubblica. Non lo sono nemmeno in Spagna, dove il numero delle morti sul lavoro – anche se in calo – rimane elevato soprattutto nell’edilizia e nei trasporti. Lo erano ancor meno in Italia, almeno fino all’incendio nell’impianto torinese della ThyssenKrupp a dicembre 2007, un evento che ha portato a un risveglio verso la tematica delle “morti bianche”: libri, film, servizi televisivi e articoli sono succeduti alla commozione e alla rabbia.
Una reazione simile a quella seguita alla tragedia di Tolosa del 21 settembre 2001, dove un’esplosione nell’impianto chimico Atz del gruppo Grande Paroisse, filiale della Total, provocò la morte di 29 persone. Ma la falsa pista terroristica (fomentata dal Ministro Yves Cochet e dai quotidiani Le Figaro e Le Parisien), insieme agli eventi di New York, sviò l’attenzione dal tema della sicurezza sul lavoro. La Grande Paroisse e il direttore dell’impianto Serge Biechlin devono ancora essere sottoposti a processo (sarebbe dovuto cominciare il 28 di settembre davanti al Tribunale Correzionale di Tolosa, è stato rimandato al 23 febbraio 2009).