Le matite rivoluzionarie di Khalid Albaih
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Classe 1980, Khalid Albaih è da molti considerato la matita delle Primavere arabe. Non particolarmente contento di essere etichettato in quel modo, ci ha raccontato la sua lotta per un futuro migliore. Senza risparmiare qualche critica a Charlie Hebdo.
Ha tentato per mesi di pubblicare le sue vignette sui più svariati media. Niente da fare. Poi è arrivata la primavera araba e quelli che erano tratti di penna sono diventati pittura pronta ad affrescare i muri delle città, da piazza Tahrir a Beirut. Lui è Khalid Albaih, vignettista con un background particolare: di origine sudanese, nato in Romania, cresciuto in Belgio e poi trasferitosi a Doha, in Qatar.
Un giorno, il direttore di un giornale gli ha detto esplicitamente «questo non è il nostro stile». E l'ha letteralmente buttato fuori dall'ufficio. È stato in quel momento che Khalid ha iniziato a pubblicare i suoi lavori online. Lavori oggi raggruppati nella pagina Facebook Khartoon!, un gioco di parole tra la capitale del suo Sudan, Khartum, è il termine inglese cartoon.
«La vera fortuna? Essere online»
E poi? E poi è diventato la voce, o meglio la matita, della primavera araba. «Beh, non è proprio così – ribatte lui –, eravamo in tanti. Sono stati i giornali ad affibbiarmi questo soprannome. In realtà eravamo in centinaia a disegnare durante le rivoluzioni. E in molti hanno fatto un lavoro eccezionale. Io, semplicemente, sono stato fortu-nato perché le attenzioni si sono concentrate principalmente su di me». È stata una coincidenza, ripete Khalid, «già prima che iniziasse la primavera araba, noi eravamo tutti online». Ed è così, continua, che hanno iniziato a collaborare. Tutti (o quasi). Insieme.
Obiettivo? Il cambiamento per cui Khalid, armato della sua matita, lottava già da diverso tempo. Un percorso quasi naturale per uno come lui, cresciuto a pane, arte e soprattutto politica, «il motivo che non mi ha mai permesso di avere una casa vera e propria», continua Khalid, figlio dell'ex ambasciatore sudanese in Romania, sollevato dall'incarico per volere del governo militare nel 1989.
«Quando studiavo a Doha, nelle mia classe c'erano ragazzi di dieci/quindici nazionalità differenti. Tutti lì per i motivi più disparati: non certo per loro scelta e, in alcuni casi, per la difficile situazione politica del loro paese. E così siamo cresciuti insieme, curiosi di conoscere le lingue e le culture degli altri. Una cosa che mi ha insegnato a mettere in discussione il mio punto di vista e a non credere che le mie scelte siano necessariamente le migliori».
A ispirare Khalid, soprattutto dal punto di vista artistico, è stato Naji al-Ali, uno dei fumettisti palestinesi più conosciuti al mondo, ucciso a Londra nel 1987 da un assassino tutt'ora senza volto. «Un fatto che ti spiega, ancora una volta, quanto possano essere potenti le vignette. Sono cresciuto leggendo quei fumetti, affascinato dal loro essere profondi, oscuri, interessanti. Capaci di farti capire quanto la situazione palestinese fosse (e sia) dolorosa».
E poi è arrivato il 7 gennaio. È arrivato il sangue, sono arrivate le vittime e i colpi di kalashnikov esplosi nella redazione del settimanale francese Charlie Hebdo. In quel momento tutti si sono rivolti a Khalid. E lui si è trovato a rispondere, a doversi esprimere su un giornale che, a dire il vero, non conosceva così bene. «Noi non siamo abituati a vedere questo genere di cose, queste volgarità – mi spiega –. Le nostre tv sono vittime della censura così come lo sono i nostri libri. Semplicemente, lo ripeto, non siamo abituati. Nel mio lavoro, non troverete mai qualcosa del genere. E anche quando tento di andare oltre, lo faccio con molta attenzione proprio perché le persone non sono abituate». Sì, continua, conosceva Charlie Hebdo ma non è mai riuscito a leggerlo perché non ne condivideva la linea editoriale.
«Charlie Hebdo? Non l'ho mai capito»
Eppure, continua Khalid, sulla situazione di Charlie Hebdo non ha alcun dubbio: «Non so tu – mi dice – ma io continuo a non capire quale fosse lo scopo di queste persone. Ovviamente sono contro la violenza e penso che nessuno meriti di essere ucciso, soprattutto se sta svolgendo il proprio lavoro». Il vero problema, secondo Khalid, non è la rappresentazione del profeta Maometto. «Non sono stati certo i primi e non saranno nemmeno gli ultimi. Semplicemente le loro vignette, per noi musulmani, erano e rimangono offensive. Penso che siamo molto 'egoista' per un vignettista dire 'questa è la mia opinione e non mi importa di quel che pensi tu'». Soprattutto in un paese come la Francia, continua Khalid, dove vivono circa sei milioni di musulmani.
E con la copertina del 14 gennaio, continua, i vignettisti di Charlie Hebdo non hanno fatto altro che mostrare quello che lui definisce ancora una volta “egoismo”. «Avrebbero potuto fare cose meravigliose. Avrebbero davvero potuto mettere in imbarazzo chi crede nella violenza e nel terrorismo. Ti dirò di più, avrebbero potuto perfino chiamare un vignettista arabo per illustrare la loro prima pagina. Per parlare di unità, magari. E invece si sono limitati a fare la stessa cosa. Cosa volevano fare? Dimostrare di poter fare qualsiasi cosa in nome della libertà d'espressione? Beh, nessun problema. Per me, questo si chiama 'egoismo'».