Le confessioni di una stagista alla Milano Fashion Week
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I retroscena della Fashion week milanese, raccontati da una 25enne neolaureata alle prese con il suo primo stage in una rivista di moda. La sua esperienza tra isterie dei senior editor che vogliono una Dr Pepper Zero a tutti i costi, caesar salad e improbabili inviti alle sfilate.
Pranzo in centro, dietro al quadrilatero della moda. Arrivano gli ordini: il cameriere mi posa davanti un panino roastbeef, peperoni grigliati e caprino, mentre di fronte a Elisa* fa la sua comparsa una caesar salad su cui persino olio e aceto sembrerebbero grassi saturi di troppo. Già dal menù si avverte una certa differenza.
Venticinque anni, fresca di laurea all'università di Milano, Elisa è stata appena assunta come stagista in una rivista di moda americana, per questo con il suo capo, al telefono, parla in inglese, anche se entrambe sono italiane. Il suo primo giorno in redazione coincide con l’inizio della fashion week: sei giorni interminabili, «la sveglia suonava alle 5:30, alle sette ero in ufficio e prima delle due di notte non ho mai lasciato il mio desk».
New York, Londra, Milano, Parigi. Sono le tappe del grande mese della moda... per quelli del settore è come se fosse un secondo Capodanno. Il periodo ideale per i buoni propositi: smettere di indossare il tartan è il primo.
A pranzo con la stagista
A pranzo, Elisa racconta di come è vivere la Milano fashion week da dietro le quinte. Anche se ogni tanto anche lei è finita sul front row: «Questa settimana in redazione avevamo anche i senior editor di New York, Londra e Parigi. Se uno di loro non aveva voglia di partecipare a un evento, mandava me a coprirlo. Oppure è capitato che una non fosse stata messa in prima fila e si è rifiutata di andare alla sfilata». Così si è vista lo show di Desquared2, ha seguito il lancio di una linea di cosmetici e l’apertura del nuovo negozio di Krizia. Cose piccole se si considera che solo il primo giorno, il 23 settembre, le sfilate in programma erano venti.
Ma quindi come funziona? «Nei giorni precedenti è normale che gli stilisti mandino ogni tipo di oggetto per invitarti, anzi per invogliarti ad andare». Ogni invito è come una preview dell’evento. Più sono elaborati più incuriosiscono, altri, invece ti fanno passare la voglia. «L’editor di New York ha preso in mano un cartoncino marrone e oro, forse di Trussardi, e ha detto che le "era perfino passata la fantasia di andare"». L’invito più strano? «Quello di Moschino. Giallo e nero come i segnali dei lavori in corso, con tanto di cover a forma di spray per i vetri. Quando l’hanno visto tutti volevano andare da lui». Ed effettivamente lo show meritava. Cartelli stradali, asfalto, rulli del lava-auto e colori sgargianti. Moschino al meglio della forma.
La dura vita da stilisti
È possibile parlare male del lavoro di uno stilista? «Non proprio. Se si hanno contatti con il brand, cioè in sostanza se ti compra pagine pubblicitarie, e ci sono alle spalle anni di collaborazioni, difficilmente la sfilata verrà criticata». Il politically correct impone una stroncatura lieve e sofisticata, in cui a trapelare sia l’invito a fare meglio con la collezione invernale». E se invece non si hanno rapporti con il brand? «In quel caso c’è libertà assoluta».
Ma le faide interne sono altre. «Alcune testate non sono state invitate da Dolce&Gabbana». Sarebbe più corretto dire che sono state bandite. «Perché l’anno scorso hanno preferito schierarsi dalla parte di Elthon John, quando li ha presi di mira per le loro dichiarazioni sulla famiglia omosessuale». A volte rivangando anche le accuse di evasione fiscale, da cui i due stilisti, però, sono stati assolti.
Com'è davvero un magazine di moda
Quindi trame sotterranee e complotti sono reali? È l’attualità? «Solo quella che riguarda il fashion system». Quando penso alle riviste di moda mi immagino Runway e Miranda Priestly… «Anche io all’inizio pensavo di essere finita in un mondo simile. Esiste davvero gente che non può vivere senza quel paio di scarpe o che impazzisce per una borsa. Nessuno ti dà una mano e tutti ti mettono i bastoni fra le ruote. Se non fai quello che ti è chiesto, sei fuori». E non è un’esagerazione. «L'editor di Londra si è impuntata perché voleva una lattina di Dr Pepper Zero, per la cronaca: introvabile a Milano, e mi ha detto che se non gliel’avessi portata, avrei potuto anche non farmi più vedere».
E per quanto riguarda i guardaroba da sogno in ufficio? «Una fantasia, purtroppo. Anche se una sera dovevo andare al party di Armani. Cioè, ero il "plus one" dell’editor di Parigi. E non avevo nulla da mettermi». Non tutte, effettivamente, girano con un abito lungo nella borsa, «mentre lui aveva con sé tutti gli avanzi delle sfilate e mi ha detto di scegliere un abito». Quindi l’armadio come quello de Il diavolo veste Prada non esiste: ma se ti mandano vestiti e accessori per uno shooting o una sfilata, puoi tenerli? «Sì, esatto». L’oggetto più strano che vi è arrivato in redazione? «Una pen-drive ricoperta di pelliccia di coniglio. E un paio di borracce». Ricoperte di pelliccia? «Meglio che non te lo dica».
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*Per tutelare l'anonimato della protagonista, il nome della ragazza e alcuni dettagli di questa storia sono stati cambiati o omessi.
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