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Lavoro da eremita? Con il coworking, l'ufficio si affitta da casa

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A quanti free lance è successo di sentirsi isolati, nella loro quotidiana ricerca e produzione di un lavoro? Il coworking offre, a tutti coloro che non dispongono di un ufficio stabile, un luogo dove deporre la valigetta e lavorare in compagnia. E pazienza se il vicino di scrivania è un architetto, il collega nella stanza a fianco un avvocato, e voi siete un ingegnere informatico.

Lo scambio delle conoscenze, nell'era della precarietà, non passa soltanto attraverso Internet.

Verona – Immersi nella quiete, in una suggestiva corte Alessandro e Francesco, due giovani free lance veronesi decidono di incontrarci per raccontarci del coworking e del loro progetto: The Collective.

Il coworking nato negli Stati Uniti già a partire dal 1999 si è rapidamente diffuso nella Silicon Valley, dove professionisti informatici, accomunati dalla necessità di incontrarsi e condividere spazi comuni, hanno dato vita alla prima comunità di coworkers: The Hat Factory. Il coworking, nella più classica definizione del termine, prevede la condivisione di un ambiente comune, sia esso un ufficio, un open space o un magazzino ristrutturato, da parte di professionisti che possono svolgere i lavori più diversi.

"Permette di togliere dall'isolamento molti professionisti free-lance"

Al contrario di quanto si pensa, il coworking non è solo un ufficio “low-cost”, bensì uno stile lavorativo che permette di condividere spazi di lavoro, chiacchiere informali, conoscenze, fare strada e crescere assieme”, afferma Alessandro, 29 anni. “Il coworking è uno spazio che permette di distribuire ricchezza culturale e taglia dall’isolamento molti professionisti free lance”, aggiunge Francesco, architetto – guarda caso - free lance e socio del progetto The Collective.

Non solo condivisione delle spese

Certo, il coworking risponde all’esigenza di abbattere il costo dell’affitto di un ufficio, e ben si inserisce in un contesto profondamente mutato dalle conseguenze della crisi economica, ma non solo. Con tariffe che partono dai 149 euro al mese e diversificate a seconda delle esigenze, oltre a servizi di base quali internet, telefono, scrivania, area comune e un ufficio dove incontrare i clienti privatamente, The Collective prevede una membership per coloro che vogliono usufruire anche durante le ore serali e notturne delle postazioni. “I coworkers però non sono scelti a caso”, ricorda Francesco. “Essi condividono una filosofia comune, ovvero la volontà di far incontrare professionisti appartenenti al mondo del digitale e del creativo, due settori che spesso si trovano separati e in competizione”.

Coworkers = co-thinkers

Condividere uno spazio comune, abbattere ruoli gerarchici accomunati dalla volontà e dalla consapevolezza che la startup del futuro nasce dalle idee di oggi. The Collective quindi si inserisce in un contesto mutato non solo dalla crisi economica, ma anche dall’evidente trasformazione che il mondo del lavoro sta attraversando. Sempre più lavoratori, per scelta o per obbligo, de-territorializzati, individuano nel coworking la possibilità di incontrare professionisti diversi e dare vita a nuovi progetti e società. The Collective infatti, traendo vantaggio dalle diverse conoscenze che i coworkers hanno apportato, ha già avviato alcune attività culturali, quali corsi serali di sviluppo mobile e in 3D Studio.

"I coworkers non sono scelti a caso, devono condividere una filosofia comune"

Criticato da pochi, elogiato dai più, la diffusione del coworking risulta incontrare ancora qualche difficoltà, soprattutto nelle piccole città. Qui il tradizionale modus operandi risulta avere ancora la meglio su nuovi stili lavorativi.

Alessandro ci spiega infatti che, se da un lato si assiste ad una sempre maggiore diffusione del fenomeno, dall’altra parte la diffidenza verso quella che possiamo definire una “riadattata forma di open space” oscura le reali potenzialità che The Collective e, più in generale, la comunità coworking può realmente sviluppare. In Italia, il fenomeno conta anche sulla diffusione del “cowo”, una rete italiana fondata nel 2009 da Massimo Carraro e che oggi dispone di 39 uffici affiliati in ben 21 città, come raccontato da La Repubblica.

Anche nel resto d’Europa il fenomeno sembra essersi diffuso a macchina d’olio. Vuoi la crisi economica, vuoi l’aumento esponenziale della precarietà, vuoi la necessità di separare il luogo di lavoro dalla propria abitazione, il coworking sta superando l’iniziale diffidenza.

In Spagna questi centri, definiti anche “incubadoras de empresas”, rispondono a una logica simile a quella italiana: “dare spazio a chi ha molte idee e pochi soldi per poter sostenere i costi fissi”, è la definizione data da Carolina Ortiz, una delle socie di Aware Coworking di Alicante, in un’intervista rilasciata a El Paìs. Anche la Germania non è da meno. Venture Village, blog sul panorama IT berlinese, ha lanciato un sondaggio sui dieci migliori coworking di Berlino: ai primi tre posti, sono arrivati ClubOffice (Wilmersdorf), Betahaus (Kreuzberg) e Ahoy! (Charlotteburg). Un paese in continua espansione culturale oltre che economica come la Germania, non poteva non accogliere con entusiasmo l’idea innovativa del movimento del coworking tedesco, sviluppatosi già nel 2009 e che oggi può contare su 72 uffici affiliati.

Parlare di coworking in Italia, e forse anche in paesi come la Francia e la Spagna, dove l’idea tradizionale del lavoro è ben radicata, risulta ancora difficile.Non sappiamo se per questi paesi il coworking si rivelerà un’idea vincente, volta a riunire ciò che è stato diviso dalla precarietà e dalla de-localizzazione delle imprese, o se invece si tratta solo di una corsa ai ripari, uno stile lavorativo che, una volta terminata la crisi, riporterà i lavoratori al loro originario status di eremiti. Per il momento, ci piace osservare come il detto “di necessità, virtù” abbia dato vita a una community estesa tuttora in espansione, smorzando gli antagonismi tra professionisti sempre più competitivi.

Foto di (cc) flood/flickr; video: coworkingtoronto/youtube