L’appuntamento (mancato) con la Storia
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Per la Commissione non ci sono dubbi: i negoziati con la Turchia devono essere aperti. La decisione è storica. Ma i leader di cui abbiamo bisogno non ci sono. Eppure una soluzione ci sarebbe...
Un cambiamento storico. E’ così che i giovani europei percepiscono la decisione della Commissione sulla Turchia. A prescindere dalle opinioni personali. Il Rapporto del 6 ottobre, infatti, col quale Bruxelles raccomanda al Consiglio Europeo l’apertura dei negoziati in vista di un’adesione di Ankara, apre la strada a uno stravolgimento epocale. E condiziona fortemente il volto dell’Unione Europea nei prossimi dieci-vent’anni.
Un paese asiatico e musulmano: perché no?
Per la prima volta si afferma chiaro e tondo che l’Unione non è un club cristiano, né una regione geografica, ma un progetto politico. La Turchia, col suo 97% di territorio anatolico e i suoi 66 milioni di musulmani, non lascia scampo a dubbi: è un paese asiatico e musulmano. Legato inestricabilmente alla storia europea, certo, e molto più laico della Grecia o dell’Italia, ma comunque irrimediabilmente diverso. E’ un bene che sia così? E’ un bene che la Turchia entri a far parte della Ue? Al lettore l’ardua sentenza. Quel che è certo è che ammettendo di negoziare con la Turchia – forse per dieci anni e più prima dell’adesione vera e propria – la storia dell’Unione è cambiata. Di fatto.
Statisti cercasi
Ma il problema di quest’Europa è che sta entrando nella storia senza statisti, senza uomini politici lungimiranti in grado di mostrare la strada, di animare un dibattito pubblico quantomai necessario.
La decisione della Commissione, infatti, sbuca fuori da un grigio ufficio brussellese come qualsiasi direttiva sulla dimensione dei chiodi o sulla commercializzazione delle banane. Ad opera di un Günter Verheugen, commissario socialdemocratico all’allargamento, che è certo stato zelante nel moltiplicare l’attività diplomatica con Ankara, ma che ha fatto poco o niente per spiegare al pubblico europeo le ragioni dell’adesione turca. Certo, senza media europei forti, è difficile far passare un’idea rivoluzionaria, comunicare una convinzione, imporsi a venticinque popoli diversi con un certo carisma.
Ma la Commissione ha deluso anche perché ha snobbato l’importanza stessa di costruire un dibattito pubblico europeo. Perché non rendersi protagonisti, ad esempio, di una tournée continentale con la quale Verheugen e lo stesso Prodi avrebbero promosso il progetto Turchia di Stato in Stato? Perché non scommettere sui pochi media europei esistenti, tra i quali la TV satellitare Euronews e la rivista café babel, per far passare un messaggio fondamentale per i prossimi decenni d’integrazione europea?
Ma la colpa non è solo di Bruxelles
La verità è che i nostri leader, e non tanto quelli che siedono a Bruxelles ma coloro che fingono di governarci dalle nostre capitali, non vogliono un dibattito pubblico su scala europea. E’ molto più comodo, più semplice gestire di volta in volta la sorpresa – in qualche caso lo sdegno – di un’opinione pubblica europea ancora ignara di cambiamenti epocali quali quello sulla Turchia, come ignara è stata dell’allargamento di quest’anno a dieci nuovi membri. Ciò evita di affrontare una dialettica transnazionale che scombussola i punti di riferimento anche culturali di una classe dirigente che non ha mai vissuto nell’Europa che noi viviamo, che non ha mai fatto l’Erasmus, che parla male le lingue straniere e che comunque considera l’Unione Europea come una questione di diplomazia.
Ebbene, l’Europa non è un affare di diplomazia, né tantomeno di burocrazia. Fin quando si tratta di chiodi o banane la nostra generazione può anche chiudere un occhio. Ma quando è il momento di integrare la Turchia vogliamo di più. Per evitare che la democrazia europea sia abortita sul nascere, scommettiamo sul dibattito europeo, esigiamo leader europei responsabili e comunicativi. Non è (ancora) troppo tardi.