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L'alba della sesta repubblica

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La vittoria dell'estrema destra non può restare senza conseguenze, per la Francia e per l'Europa. Un'analisi di medio periodo: tra Jean-Marie Poulain e Amélie Le Pen.

La vittoria di Le Pen può essere una buona notizia per la Francia, e per il suo sistema politico. Anche se ciò che traspare in queste ore è solo rabbia e stupore, per una crisi che - è bene ricordarlo - non si limita alla depressiva leadership di Lionel Jospin, ma investe il senso stesso di una democrazia che consegna al secondo turno delle sue elezioni presidenziali, un candidato oggettivamente pericoloso per le istituzioni liberali del Paese. Programma alla mano, infatti, il Le Pen suffragato dal 18% dell’elettorato francese, prevede la limitazione dei diritti soggettivi dei non-francesi, l’uscita di Parigi dall’Unione europea e la riesumazione della pena di morte - per citare solo alcune delle sue aberranti proposte.

Ma “la più grande crisi politica del dopoguerra” - secondo la dichiarazione del Ministro delle Finanze Laurent Fabius - poteva essere pronosticata. Perché dovuta, in gran parte, ad una tendenza in atto da decenni or sono, nella cultura francese: quella del passaggio, vorticoso, dall’universalismo progressista al provincialismo reazionario. Il provincialismo di Jean-Marie Poulain, o Amélie Le Pen, per intenderci: quell’idea, ripetuta ossessivamente nel dopo elezioni da molti seguaci di Chirac, secondo cui la Francia, piuttosto che andare a ripristinare la pace negli angoli più sperduti del mondo, dovrebbe piuttosto pensare all’insécurité che imperversa sotto il balcone di casa, per le strade di un Paese drammaticamente diverso dalle viuzze di celluloide del film di Jeunet. Un’idea che non solo si basa su una premessa infondata - basti pensare all’indecoroso fallimento di molte missioni dell’esercito francese in Afganistan - ma che pretende, come se nulla fosse, che Parigi, membra del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, abdichi al suo ruolo internazionale, proprio nel momento cruciale che le relazioni internazionali stanno attraversando.

Ma la soluzione di continuità del 21 aprile non è rappresentata da questo provincialismo “di destra” che, giova ricordarlo, era ben radicato nell’opinione pubblica francese da almeno due decenni - visto che, pur non essendo mai arrivato al secondo turno, il Fronte Nazionale di Le Pen aveva cominciato a mietere successi già negli anni ottanta. In realtà ciò che lo ha favorito sono stati piuttosto gli errori comunicativi del Partito Socialista (PS) che hanno consentito, tra l’altro, la “lepenizzazione” di un dibattito pubblico patologicamente focalizzato sul tema della sicurezza; e, d’altro canto, la provincializzazione della stessa leadership di sinistra.

Come ha spiegato Martine Aubry, ex Ministro del Lavoro del governo Jospin, il più grande errore del PS è stato di “non aver saputo spiegare la differenza tra sinistra e destra”. Una differenza che all’estero era ben chiara, se è vero che, solo con la legge sulle 35 ore (di cui la stessa Aubry era firmataria), la politica di Jospin era percepita da tutti come quella più “a sinistra” dell’intero mondo occidentale. E’ per questi errori comunicativi che una buona fetta degli astensionisti erano potenziali elettori del PS. Ed anche per questa ragione che il primo turno delle presidenziali si era trasformato in un grande referendum sulla sicurezza.

Ma gli errori della sinistra non si limitano al piano formale: troppe erano state le evoluzioni del mondo contemporaneo, per accontentarsi di programmi incapaci di fronteggiarle. E non mi riferisco solo alla globalizzazione, al fatto che, probabilmente, Jospin ha perso anche perché non ha saputo calamitare i voti di Attac, la ONG no-global che in Francia è molto popolare. Né al puro problema della sicurezza, punta dell’iceberg del fallimento della politica d’integrazione degli immigrati. La verità è che l’élite intellettuale si è fatta, da molti anni, risucchiare nel vortice del nombrillisme, di un provincialismo “di sinistra” incapace di materializzare progetti macchiati di sogno, in grado di segnare il passo dell’innovazione. Lo spirito rivoluzionario, tipico del popolo francese, ne è uscito frustrato e, di conseguenza, il voto o è stato di protesta (10% per l’estrema sinistra trotzkista) o, semplicemente, non c’è stato (28% di astensione).

Ma il peggio deve ancora venire, quelle del 21 aprile sono solo le avvisaglie del terremoto che sta per scuotere la vita politica francese e, in prospettiva, quella dell’intera Europa.

Il secondo turno infatti rappresenterà una formidabile vittoria per Le Pen se, come è possibile, riuscirà a mobilitare il 30% dei suffragi. Il pericolo esiste: fin dalla sua prima dichiarazione ufficiale, infatti, il candidato del Fronte Nazionale si è presentato come il campione degli esclusi e dei diseredati, “di ogni razza, religione o idea politica”, appellando alla sacra unione contro l’“euromondialismo di Maastricht”, presentando il tutto come conseguenza di vent’anni di malversazioni subite da parte della classe dirigente della République.

Questa infame retorica populista, anche se bocciata dalle urne, costituirà una minaccia considerevole per qualsiasi governo che, dopo le legislative di giugno, si insedierà a Matignon. Soprattutto se, come previsto, il sistema elettorale francese – maggioritario a due turni con sbarramento al 12,5% - non la rappresenterà in Parlamento. Certo, non si tratta di una novità. Ma, contrariamente al pasato, la presenza al secondo turno di Le Pen, conferirà una visibilità mediatica enorme a questa eventuale opposizione extra-parlamentare che - non dimentichiamolo – essendo di estrema destra, disporrebbe del necessario spazio politico per esercitare un’azione di disturbo pericolosa per qualunque coalizione vincerà le elezioni.

La cosa potrebbe essere aggravata non solo da un’affermazione della destra moderata ma, ancor più, se la sinistra, rianimata da un nuovo fermento anti-fascista, dovesse riuscire a vincere le legislative, perché si riproporrebbe al Paese quella stessa coabitazione responsabile, in ultima analisi, del moto di protesta che è alla base dei risultati del 21 aprile. In quel caso, tutto il sistema istituzionale sarebbe rimesso in discussione: non solo dall’estrema destra, ma anche dall’enorme massa degli scontenti che non si riconoscerebbero, ad esempio, in un eventuale governo Chirac-Fabius. Sarebbe il trionfo della restaurazione, e la società francese si troverebbe di fronte ad una delle più grandi crisi della sua storia. Cosa succederebbe a quel punto?

Si aprirebbe un enorme vuoto politico per quella formazione capace di colmarlo. A quel punto gli scenari possono essere tre: consolidazione di Le Pen, che passerebbe dal grado di partito “paria”, mediaticamente invisibile, ad attore partitico legittimato ed opposizione extra-parlamentare permanente; creazione di un partito vicino alle istanze no-global di Attac in grado di calamitare i voti dell’estrema sinistra, quelli dei socialisti scontenti o astenuti e quelli di parte dell’élite intellettuale; emersione di una forza politica nuova, calcata sul berlusconismo e fondata su una strumentalizzazione delle tematiche securitarie unita a un programma liberale in grado di conquistare l’appoggio dell’imprenditoria.

Dei tre scenari non so quale sia il più probabile. Quello che è certo è che il terremoto del 21 aprile è troppo devastante per non scatenare importanti ripercussioni di medio periodo, e il carattere dei francesi troppo poco conservatore per non approfittare di questa crisi per cambiare il Paese, rifondandone il sistema politico.

La Francia ci ha abituati, nella sua storia, ad innumerevoli innovazioni che hanno mostrato la strada verso il futuro: dalla Révolution al lancio della C.E.C.A., fino al diritto di ingerenza umanitaria. L’attuale congiuntura può essere l’occasione per un nuovo contratto sociale, e non solo tra francesi e immigrati, basato sull’integrazione totale dei nuovi venuti e su nuove forme di partecipazione: solo così si potrà, al tempo stesso, risolvere il problema dell’insicurezza e creare un sistema politico che – c’è da scommetterci – sarà ancora una volta un modello per il mondo, e per un'Europa che ha bisogno di reinventare il concetto stesso di Stato-nazione. Ma questo dipenderà dal coraggio con cui la Francia – le sue élite e la sua società – risponderà alla nuova sfida che la riguarda. La sesta repubblica è possibile. Ringraziamo Le Pen.