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Laeken rilancia il nazionalismo

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Il Consiglio europeo di Laeken doveva rispondere ad una serie di sfide cruciali per l'Unione. Il suo fallimento potrebbe preludere ad una deriva nazionalista.

I partner europei si sono presentati a Laeken con l'obiettivo dichiarato di porre rimedio all'asimmetria esistente tra un'integrazione monetaria giunta ai suoi limiti estremi con l'introduzione materiale della moneta unica, e un'integrazione politica (ed anche economica, per molti aspetti) ancora in affanno.

È giusto innanzitutto sottolineare come i risultati della riunione del Consiglio Europeo siano stati quantomeno contradditori. L'ideale europeista, propugnato e diffuso, almeno nelle intenzioni, dalla Commissione Prodi, ha ricevuto impulso fortissimo dalla creazione di una Convenzione guidata dall'ex-presidente della Repubblica francese Giscard d'Estaing, i cui lavori dovrebbero dare risposte alle innumerevoli domande contenute nella Dichiarazione che aveva preceduto il vertice di Laeken, risposte che segneranno il futuro, non tanto prossimo, della casa comune europea. La Convenzione dovrà designare l'indirizzo europeo soprattutto su temi quali allargamento, democratizzazione delle istituzioni, unione politica, difesa, spazio giudiziario comune, armonizzazione delle legislazioni e delle politiche interne. Al di là delle critiche sulla scelta di un uomo dell'altro ieri (a detta dei socialisti europei) alla guida di un complesso staff di tecnici e politici che dovrebbe ammodernare, democratizzare, innovare l'assetto e le politiche dell'Unione, fa dubitare della buona fede e delle buone intenzioni di molti capi di Stato e di governo il modo in cui si è giunti alla designazione di Giscard.

Il vertice del Consiglio Europeo è stato preceduto da serrate riunioni bilaterali tra le diplomazie dei Paesi aderenti all'Unione, in modo da ridurre al minimo la bagarre in occasione del momento in cui porre le firme. Ma si peccherebbe d'ingenuità a pensare che ogni decisione presa sia stata considerata autonomamente, senza inserirla in una logica di do ut des che coinvolgeva tutti i 15 Paesi membri. I frenetici negoziati che hanno avuto luogo dovevano trovare una soluzione tale da rendere il complesso intreccio delle rivalità quanto meno un gioco a somma zero. Il punto è certo banale, ma decisivo se si vuole valutare la concreta efficienza dei meccanismi decisionali dell'Unione: massimizzare il ruolo dei capi di Stato e di governo porta a massimizzare quella dell'Unione stessa? Da quanto si è visto, certamente no.

Tiriamo quindi le somme di quanto è successo a Laeken: all'ordine del giorno, oltre al lancio della suddetta Convenzione, vi era la designazione delle sedi ospitanti le agenzie europee incaricate di occuparsi di materie sulle quali l'Unione vuole sviluppare una posizione comune, come ad esempio la sicurezza marittima o alimentare, o le politiche d'immigrazione. Il pacchetto proposto dalla presidenza belga è saltato in seguito al veto posto da Francia e Italia, e alle riserve della Svezia; ci si rimanda a Barcellona, a marzo prossimo, per trovare una soluzione che soddisfi tutti. Proprio a soddisfare tutti ci si è provato in una maniera alquanto goffa, moltiplicando artificialmente il numero di authorities e di uffici, fino a che le materie meritevoli di un'istituzione ad hoc non sono terminate. Gli interminabili appetiti dei leader dell'Unione non sono stati, in ogni caso, soddisfatti; e questo a scapito del lancio di un pacchetto d'iniziative che, oltre ad aver potuto segnare una significativa spinta verso l'integrazione, avrebbe giovato alla loro immagine di presunti euro-entusiasti. Gli egoismi nazionali hanno quindi bloccato un processo che avrebbe portato sicuri benefici all'Europa nel suo complesso, e il suo rinvio non ne apporta nessuno ai nostri battaglieri leader, che non hanno neppure cercato di esporre le loro ragioni con argomenti sufficientemente seri, e il loro difendere l'interesse nazionale, che nulla sembra se non una questione di puro prestigio.

La Convenzione, che sfocerà in una Conferenza Intergovernativa la quale, si spera, porti alla firma di un nuovo trattato per la fine del 2003-inizio del 2004, ha il compito difficile di dare linfa all'ideale, e anche agli interessi più concreti dell'Europa, smorzando il ribollire di passioni nazionalistiche che inevitabilmente ostacolano la reale comprensione critica di come l'Unione vuole o dovrebbe essere. In quest'ambito, sarebbe opportuno lanciare dei canali di informazione europei accessibili al grande pubblico, che siano depurati di propaganda euro-entusiasta, e che abbiano il merito di filtrare i teatrini di politica interna, che inevitabilmente contagiano i dibattiti sulle questioni di ampio respiro. Tra l'altro, la politica interna, ormai, si sta trasformando nella politica di livello europeo, data l'interdipendenza tra i governi e il crescente peso che i temi comunitari hanno sulle campagne elettorali. Il relegare le politiche interne ad un carattere di politiche "regionali" è una questione, quindi, solo di funzioni e di poteri.

Il problema dell'informazione, quindi, si innesta nel discorso di una maggiore democratizzazione delle istituzioni, ma soprattutto della partecipazione della società civile nel dibattito in corso.

Se la Convenzione è vista un po' ovunque come un successo per il fatto stesso che esista, bisogna quindi ancora aspettare i risultati del suo lavoro, la successiva genesi di un nuovo trattato e la sua eventuale (pronta) ratifica da parte del Parlamento di Strasburgo. Non è un mistero che l'allargamento, ritenuto uno sbocco inevitabile per l'Unione da parte di tutti i leader che non vogliano essere rimproverati di euro-scetticismo, rappresenti, per molti cittadini, un grande punto interrogativo: quale sarà il suo impatto sul lavoro, sull'immigrazione, sulle politiche di sviluppo? Lasciare che a dare queste risposte siano uomini politici con l'appuntamento elettorale in vista può essere molto pericoloso per una reale comprensione dell'evoluzione dell'Europa.