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La vecchia Europa snobba il Welfare

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Bruxelles preme per i tagli alla spesa sociale. E la Nuova Europa risponde. Ma questa strategia non aiuta i lavoratori europei. Analisi.

Il Welfare State in Europa si sviluppa in un ambiente sempre più ostile. Al giorno d’oggi i modelli di Stato sociale europei stanno attraversando un periodo di ristrutturazione e rimodellamento che mette (parzialmente) in discussione i modelli fino ad ora usati dalla letteratura per differenziarli.

I quattro modelli di protezione sociale

Storicamente si è sempre parlato di:

• un modello socialdemocratico basato sui principi universalisti contenuti nel rapporto Beveridge (1947) che si è sviluppato specialmente nei paesi scandinavi;

• un modello conservatore, basato sui contributi alla grande cassa della previdenza sociale e sulla protezione del lavoratore, di ispirazione bismarckiana (Germania e Francia);

• un modello liberale, vigente in Gran Bretagna e Irlanda, di tipo assistenzialista e dedicato principalmente alle classi meno abbienti;

• un modello mediterraneo, da ritrovarsi nei paesi del sud d’Europa, dove l’elemento ricorrente è un’insufficienza di mezzi.

Sebbene queste differenze persistano al giorno d’oggi, le sfide che lo Stato sociale in Europa deve affrontare sono basicamente le stesse: i cambiamenti osservati nei modelli economici (riassunti nella parola magica “globalizzazione”), nelle strutture sociali e familiari, nelle relazioni di lavoro (crescita di lavori “flessibili” e precari) e nella demografia (aumento della speranza di vita, bassa natalità) impongono cambi strutturali a sistemi sociali inizialmente ispirati alle società europee del dopoguerra e che ora fanno fatica ad adattarsi alla società post-industriale. Sono sfide che necessitano uno sforzo di ripensamento che non implica necessariamente una riduzione del peso dello Stato sociale, ma anzi un suo rinnovato coinvolgimento nell’economia e nella società.

Libero mercato costituzionalizzato

Come sta reagendo il Welfare europeo a queste problematiche? In sette anni, dal 1993 al 2000, la media dell’Ue di spesa sociale è scesa di un punto e mezzo di PIL, dal 28,8% al 27,3%, frutto soprattutto dei tagli in alcuni degli stati più generosi (Svezia, Finlandia, Germania, Olanda) in parte bilanciati dalla crescita di sistemi meno sviluppati, come Portogallo e Grecia. In generale si può parlare di una stabilizzazione (contando i minori sussidi alla disoccupazione rispetto alla crisi di inizio ’90), con una tendenza al ribasso.

In questo scenario l’Ue relega la questione sociale a un problema di seconda o terza categoria. La Commissione, appoggiandosi sul Patto di Stabilità e Crescita, raccomanda costantemente tagli alla spesa corrente (sistema pensionistico) e non ha una vera politica di coordinamento delle politiche sociali. L’unico strumento utilizzato, il coordinamento delle politiche contro l’esclusione, è debole e addirittura in via di ridimensionamento.

La “Costituzione”, che gli Stati o i popoli europei saranno chiamati a ratificare nel biennio che inizia, non aiuta a risolvere il disinteresse comunitario: la protezione sociale è genericamente inclusa nell’articolo I-3, mentre nell’articolo I-2 il mercato libero e a concorrenza perfetta è elevato a principio costituzionale, di gran peso nel momento in cui il settore privato, a scopo lucrativo, reclama il diritto di entrare nella gestione di pensioni, assicurazioni e servizi sociali.

E i nuovi Stati membri? Tagliano

Un’altra occasione mancata è stata quella di non introdurre il criterio sociale nelle trattative con i 10 nuovi paesi membri dell’Europa centro-orientale. La priorità è stata quella di aprire i mercati, fomentare la libera concorrenza e le privatizzazioni, mantenere la stabilità monetaria e fiscale. Risultato? Nei principali neo-stati membri dell’UE si è verificata una diminuzione del peso dello stato sociale: tra il ’96 e il 2000 l’Ungheria è passata dal 24,80% del PIL al 23,20%, la Polonia dal 25,50% al 24%, la Slovacchia dal 23,28% al 21,70%, e la Repubblica Ceca è ferma a circa il 20%.

Peggio ancora, nella transizione dalle economie pianificate a quelle di mercato, questi paesi hanno subito le forti pressioni della Banca Mondiale per introdurre sistemi di capitalizzazione obbligatoria (contro il sistema solidale, contributivo e di reparto vigente nei paesi europei). L’adattamento alla nuova realtà sociale e economica è stato quindi traumatico e ha comportato una riforma dei sistemi di Welfare in certi casi poco coerente; se questi sistemi cominciano ad assomigliare nella loro struttura a quelli dell’Europa occidentale, alcuni elementi stonano, come l’introduzione di un pilastro obbligatorio per i fondi di pensione privati (con mercati finanziari interni ancora poco sviluppati) e, in alcuni paesi, la mancanza di una clausola di rivalorizzazione delle pensioni per l’inflazione.

Le sfide alle quali il welfare europeo deve far fronte implicano certamente sforzi finanziari importanti. Secondo un rapporto dell’Economic Policy Committee del 2001 lo sforzo in pensioni e assistenza sanitaria derivato dall’invecchiamento della popolazione può risultare in 50 anni tra il 5,5% e il 10% del PIL. Una pressione considerevole, ma secondo gli stessi esperti abbordabile, a patto che le nostre economie continuino a crescere e che i bilanci rimangano in pareggio.

Perché questo accada la Commissione (attraverso la Strategia di Lisbona) già preme per un aumento del tasso d’occupazione, specialmente femminile, e della produttività (leggi investimenti in ricerca e sviluppo). È singolare, però, che l’Ue non dia lo stesso appoggio alle politiche di sostegno della maternità e a politiche di rafforzamento del lavoro (politiche attive, sussidi alla disoccupazione, formazione continua) che aumentino la partecipazione e la stabilità dei lavoratori, elementi essenziali per un’alta produttività. Non solo. L’Europa continua a vedere nell’immigrazione non una risorsa necessaria da accogliere a braccia aperte, ma un problema da reprimere. Nel frattempo, però, la fortezza Europa invecchia.