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La seconda guerra fredda

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C'è un filo rosso che lega il dibattito sulla globalizzazione pre-Genova allo scenario globale post-11 settembre. Il pensiero critico è minacciato da una dérive sécuritaire.

L'impatto di questa guerra sull'opinione pubblica è come la risacca del mare. Le onde livellano la sabbia confusa e calpestata delle spiagge, proprio come il flusso delle informazioni che ha seguito l'11 settembre appiattisce e sommerge il dibattito sulla globalizzazione sbocciato a Genova lo scorso luglio. E ciò sia perché, in termini di mercato dell'informazione, questo dibattito non "vende" più come prima, sia perché appare ormai sempre più dannoso criticare un modello, quello occidentale, che, mai come ora, avrebbe bisogno di essere difeso dalla minaccia terrorista.

Il valore di Genova non consisteva tanto nella qualità di un dibattito spesso privo di spessore ideologico e strumentalizzato (dalla sinistra come dal Vaticano), quanto nel fatto che, dopo mezzo secolo (breve) di manicheismo ideologico ed un decennio di pensiero unico liberista, ridiveniva legittimo criticare il sistema globale.

A questo revival della contestazione, si sommava una mobilitazione di massa, strana nell'era di Internet, di giovani generazioni, per lo più europee, che creava eccellenti prospettive di dibattito politico per la società del Vecchio Continente. Un continente invecchiato dal regresso delle culture politiche (nazionali e comunitaria), ma rinnovabile grazie alla ritrovata vitalità delle nuove generazioni.

Dopo l'11 settembre tutto pare spazzato via. E l'abbozzo di un dibattito transnazionale sul sistema mondiale è solo uno sbiadito ricordo, di fronte a quel frullato maleodorante di menti acritiche che è l'antrace. C'è il serio pericolo di una dérive sécuritaire: un'ondata di panico che attanagli l'audience e i sondaggi ed anestetizzi le coscienze più critiche. Pericolo a cui le nostre sondocrazie televisive rischiano di trovarsi particolarmente esposte.

E questa tendenza non sta stravolgendo solo l'offerta mediatica, ma anche le arene politiche: il successo del movimento no-global aveva addirittura indotto Lionel Jospin, candidato socialista alla Presidenza della Repubblica francese, alla pubblicazione di un saggio sulla globalizzazione. Adesso invece, proprio la sfida elettorale francese del 2002 rischia di giocarsi quasi esclusivamente sul tema della sicurezza, nazionale come internazionale.

Stiamo tornando alla guerra fredda. Una guerra che raffredda le coscienze ci attende, proprio come freddati furono gli spiriti contestatori del maggio, parigino e un po' globale, di quel lontano 1968. Freddati dalla minaccia nucleare di distruzione. Da quell'equilibrio intelligente e non "pazzo", atomico comunque, che arrivava ad ibernare la critica.

Allora come oggi, di fronte ad un ordine mondiale minacciato, la gioventù e certi intellettuali debbono placarsi. Per il nuovo pensiero critico, "la ricreazione è finita": sembra giunto il momento di cedere il passo alla tirannia della sicurezza. Alla dittatura dello status quo sulle idee in movimento.

L'ALTERNATIVA

Ma la tendenza non è inarrestabile. Paradossalmente, gli "storici" attentati dell'11 settembre non hanno ancora cambiato la storia, né hanno dispiegato tutti i loro effetti d'anestesia sui fermenti delle masse. La critica, dopo l'11 settembre, è stata sì azzerata, ma di sicuro non abortita: le sue potenzialità rimangono inalterate1, perché il suo teatro - quello mediatico - rimane disponibile ad accoglierla, non appena chi di dovere sarà in grado di riproporla in modo meno noioso di questa guerra. Il problema resta quello di sempre: trovare una leadership politica ed intellettuale capace di soddisfare il bisogno di cambiamento che serpeggia, minacciato e intatto, nell'opinione pubblica.

Gli attentati dell'11 settembre hanno solo apparentemente reso il compito più difficile. La strategia globale americana, infatti, vìola proprio quei princìpi e quelle esigenze di giustizia "senza frontiere" che erano state propugnate a Genova. L'importante è che l'opinione pubblica europea se ne renda conto.

Paradossalmente, infatti, proprio la disgrazia umanitaria che gli Stati Uniti hanno subìto l'11 settembre, costituisce per Washington una straordinaria opportunità strategica. Per la prima volta dopo l'esplosione dell'URSS, c'è un nemico globale da combattere: il terrorismo internazionale. Un nemico caratterizzato da una brutalità che giustifica risposte quantitativamente illimitate, e da un'onnipresenza che legittima azioni repressive in qualsiasi parte del pianeta.

In questo senso va il deciso intervento del 10 novembre, col quale George W. Bush ha dipinto, davanti alla platea dell'Assemblea delle Nazioni Unite, un pianeta in procinto di ripiombare in una situazione di guerra fredda. Anche la terminologia usata ("o con noi, o contro di noi", "questa è la lotta del Bene contro il Male" e l'appello per "un'azione congiunta del Mondo Libero") mira a serrare le fila del consenso internazionale tra gli Stati contro le "reti" terroriste; ad annichilire l'opposizione dell'opinione pubblica internazionale; a "terrorizzare" le relazioni internazionali, facendo calare nei nostri animi una sottile cortina di panico.

Gli Stati Uniti hanno scelto di strumentalizzare l'11 settembre. Il loro obiettivo sembra essere quello di trarne la legittimazione per una strategia globale volta alla caduta del regime taleban nel breve periodo, al rovesciamento di Saddam nel medio, ed al controllo dell'Asia Centrale (e dei suoi giacimenti petroliferi) nel lungo.

Se questa intenzione sarà avvalorata dai fatti, è ovvio che le relazioni internazionali del ventunesimo secolo saranno fondate su un'etica internazionale del profitto, e non del diritto internazionale. Che sempre più Stati "illegali" (che non rispettano cioè i diritti dell'uomo) saranno sdoganati da Washington in nome della convenienza strategica (prime tra tutti, dopo il recente incontro di Shanghai, Russia e Cina). Che lentamente la logica della sicurezza calerà sulle nostre vite, paralizzando la critica. Istituzionalizzando shock, paura e panico. E sprecando le idee (di conseguenza non più retoriche) di giustizia, pace e libertà.

Ma come in tutte le strategie globali contemporanee, fondamentale sarà il sostegno delle opinioni pubbliche. Non solo di quelle americana, o araba. Ma anche di quella europea, con la quale l'amministrazione repubblicana, fino all'11 settembre, aveva avuto non pochi problemi (in materia di ratificazione del protocollo di Kyoto e dello Statuto della Corte Penale Internazionale, per fare solo qualche esempio) e dalla quale, comunque, non potrà prescindere. Per due motivi: perché la leadership statunitense si fonda sul consenso di un'Occidente di cui l'Europa è e resta la culla storica; e perché l'appoggio politico e, soprattutto, la collaborazione dei servizi segreti europei rimane indispensabile per Washington.

Ora, questo sostegno non è scontato: non è detto cioè che l'opinione pubblica europea accetti di decidere del suo appoggio sulla base del categorico aut-aut tra Bene e Male posto a più riprese da Bush2. Che gli europei accettino il ruolo di fedeli telespettatori dell'ennesimo show politico-militare di Washington - al limite coadiuvata da truppe di Stati europei - senza prima sviluppare un reale dibattito sulla guerra.

Soprattutto se questo dibattito si fa europeo, valicando le frontiere linguistico-mediatiche. Se, come si era imprecisamente fatto con la globalizzazione, si inaugura un prorompente dibattito generazionale sulla guerra. E se partecipiamo, con la tastiera e con lo schermo, a café babel.