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La legge è uguale per (quasi) tutti, storie di omicidi in divisa. Il caso di Dennis J

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Andiamo avanti con la nostra inchiesta. Siamo sempre in Germania, dopo aver parlato di alcuni casi italiani, inglesi, spagnoli e francesi. Anno 2008. Protagonista: un ragazzo di 26 anni. I responsabili: alcuni agenti di polizia. La storia si ripete e noi vogliamo raccontarvela.

Parte XI, continua...

Un altro caso dall'epilogo simile a quello di Mark Duggan è quello riguardante Dennis J, un 26enne che perse la vita la sera del 31 dicembre 2008 a causa dei colpi di arma da fuoco sparati su di lui da un agente della polizia. Secondo la versione dei poliziotti, il ragazzo stava guidando su una Jaguar rubata quando tre agenti in borghese della sezione di Berlino cercarono di fermarlo nei pressi di Schönfließ, nella periferia settentrionale della capitale tedesca. Tuttavia, stando sempre alla ricostruzione degli agenti, Dennis non si sarebbe fermato ed avrebbe anzi schiacciato il piede sull'acceleratore, ferendo leggermente alla gamba un poliziotto nel tentativo di forzare il posto di blocco. Allora il commissario Reinhard riuscì a sparare sei colpi con la sua pistola di servizio, colpendo il corpo del ragazzo al cuore ed al polmone prima che l'auto si schiantasse contro un'altra vettura parcheggiata. Resta però il fatto che Dennis fosse completamente disarmato e che risultano molte incongruenze nelle ricostruzioni che lasciano più di un dubbio sull'effettiva veridicità dell'intera versione.

Le ricostruzioni

Tanto per iniziare la difesa dell'agente Reinhard afferma che i colpi sarebbero stati sparati non mirando al ragazzo, che sarebbe stato colpito a causa delle deviazioni subite dai proiettili, come rivelato dalle deformazioni di questi. Tuttavia essi avrebbero potuto alterare la loro forma anche a causa dell'impatto sul parabrezza dell'auto e la precisione dei colpi lascia pensare più a spari mirati. Inoltre nei giorni immediatamente successivi alla vicenda iniziarono a circolare voci di una presunta relazione tra il ragazzo e la ex fidanzata di Reinhard, il quale sarebbe stato assai geloso di Dennis, per cui fu aperta l'ipotesi di un omicidio avvenuto con motivazioni di vendetta personale. Tuttavia la polizia negò con forza questa versione e non furono rinvenute prove adatte ad avvalorare tale ipotesi. Reinhard venne comunque accusato di omicidio colposo e partecipò alla ricostruzione degli eventi sul luogo del fatto per difendere la propria posizione, rigettando qualsiasi accusa. Nel frattempo venne messo in dubbio anche il presunto sfondamento del posto di blocco con la Jaguar rubata da parte di Dennis, poiché non erano riscontrabili tracce che lasciassero conferme in tale direzione.

Fame di giustizia

Dennis è stato sepolto il 19 gennaio in un cimitero vicino a Hermannplatz, a Berlino, e circa 300 persone hanno partecipato al suo funerale, dando poi vita ad una processione che è giunta sino alla sede del capo della polizia della città per chiedere giustizia. “Chiediamo parità di trattamento per tutti, a prescindere da quale parte della legge sono”, ha dichiarato il cognato di Dennis. “Perchè Dennis è dovuto morire? Perchè l'accusato è ancora libero? Perchè gli agenti di polizia si rifiutano di rilasciare dichiarazioni se non hanno niente da nascondere?”, ha continuato in preda alla rabbia di chi è stato privato di una persona cara e di chi si sente poi preso in giro dai responsabili.

L'inchiesta

Si apre così un'inchiesta ufficiale due settimane dopo i fatti, con lo stesso procuratore Lodenkämper che anche lui conferma di avere qualche perplessità intorno alla vicenda. L'imputato Reinhard, indagato per omicidio colposo, pur dichiarando la propria innocenza si avvale per buona parte del processo della facoltà di non rispondere, mentre i due colleghi B. e S., facenti parte dell'operazione ed indagati per tentato intralcio alle indagini, sostengono di non aver udito gli spari a causa dei rumori dei fuochi d'artificio in vista della mezzanotte. Ma durante il processo si scoprono molti elementi che contraddicono la versione ufficiale degli agenti, basata soprattutto sulla legittima difesa dopo l'aggressione subita da uno di loro con l'auto rubata da parte di Dennis durante il tentativo di fuga. In realtà i poliziotti si trovavano dinanzi alla casa della ragazza di Dennis, avendo saputo che egli si trovava lì, per arrestarlo con un mandato straordinario in quanto era già sfuggito alla cattura un paio di volte. Il ricercato, però, era all'interno dell'auto parcheggiata dinanzi alla casa e cercò di fuggire, solo a quel punto l'agente Reinhard iniziò a sparare, con la macchina in movimento e sotto gli occhi di diversi passanti presenti per strada. Come dichiarato da più parti, la condotta è stata sicuramente non professionale, dal momento che non si trattava di un'emergenza, ed i tre agenti hanno commesso molti “errori” durante l'operazione. Non c'era motivo di spingersi a tanto, a meno che la cattura di Dennis non rappresentasse una questione di onore tra gli agenti, proprio in quanto egli era scampato all'arresto in più di un'occasione. Ma in ogni caso il comportamento di Reinhard fu considerato totalmente inappropriato anche da una relazione indipendente condotta grazie ai familiari ed agli amici di Dennis.

Il processo

Il processo inizia il 4 maggio 2010, a più di un anno e mezzo di distanza. Due testimoni presenti sul luogo dell'accaduto, due ragazze che avevano 13 e 15 anni il giorno della morte di Dennis, hanno dichiarato che l'auto in cui era seduto il ragazzo partì solamente dopo che fu sparato il primo colpo di pistola. In questo modo viene completamente smontata l'ipotesi della legittima difesa fornita come scriminante dagli agenti. Inoltre sempre le stesse ragazze, seguite da altri testimoni, hanno dichiarato che le strade in quella zona erano tranquille, al contrario dello scenario pieno di fuochi d'artificio descritto dagli altri due agenti come motivazione alla loro impossibilità nell'udire gli spari. I testimoni a favore della polizia, inoltre, in tribunale hanno rilasciato dichiarazioni non in linea con quelle originali e molte testimonianze risultano non firmate, portando il giudice a diventare “un po' sospettoso circa la creazione di questi dati della polizia”. Tuttavia, anche in questo caso, non mancano gli episodi che permettono agli imputati di godere di una copertura. Durante il processo, infatti, venne condotta una perizia da parte del tribunale affidata all'esperto criminologo Wanderer, il quale non escluse il possibile scenario della legittima difesa in quanto Dennis avrebbe potuto mettere in moto l'auto prima del primo sparo. Peccato che lo stesso Wanderer in precedenza avesse prodotto una relazione come consulente privato per conto della difesa: la richiesta di annullare la sua perizia venne però respinta.

La sentenza

Un anno e mezzo dopo i fatti, il 3 luglio 2010, giunge un verdetto che giudica colpevoli i tre imputati: Reinhard viene condannato per omicidio colposo mentre i colleghi B. e S. per tentato intralcio alla giustizia nell'esercizio delle proprie funzioni. L'accusa aveva richiesto il carcere per Reinhard ed una pena probatoria per i due colleghi macchiatisi di un reato minore. La motivazione a tale richiesta, si legge nelle parole del pubblico ministero, è che veniva finalmente dimostrato che “la sparatoria selvaggia in una zona residenziale costituisce una grave violazione della legge che disciplina l'utilizzo di armi da fuoco”. Inoltre, si legge ancora sul rapporto dell'accusa, l'agente avrebbe “perso ogni senso della misura a causa della sua sconfinata ambizione accettando la morte di Dennis J come una possibilità”. Al contrario la difesa aveva richiesto la piena assoluzione per tutti e tre gli agenti, spingendo sulla legittima difesa per Reinhard e sull'impossibilità di udire gli spari per i due colleghi. Il verdetto sancisce la colpevolezza per tutti gli imputati, condannando Rienhard a due anni di sospensione dal servizio in liberà vigilata ed i due colleghi ad una multa. Alla lettura della sentenza i familiari e gli amici di Dennis sono usciti dal tribunale per dar vita ad una manifestazione spontanea di protesta in preda allo sdegno per quella che si è rivelata essere una sentenza giusta in principio ma deludente riguardo la pena. Nella motivazione si legge che tale decisione è pervenuta principalmente per tre fattori: la natura eccezionalmente pericolosa della professione del poliziotto, la cui carriera in questo caso viene stroncata venendo a costituire anche questo una pena; la mancanza di un fondamento giuridico per proferire un verdetto di carcerazione; e soprattuto i rischi legati all'indennità fisica dell'agente in caso di detenzione carceraria, proprio a causa della sua professione.

Una sentenza contraddittoria

L'avvocato dell'accusa, Beate Böhler, si è pronunciato con parole dure riguardo al verdetto, affermando che mai avrebbe pensato di poter udire tali motivazioni per alleggerire una pena. Effettivamente non si è mai udito di un giudice che evita il carcere ad un imputato ritenuto colpevole in quanto “sensibile alla prigione”, inoltre le stesse motivazioni risultano contraddittorie proprio nella descrizione di Reinhard: da una parte si parla di lui come di un ambizioso e di un esperto nella professione e dall'altra come di un uomo in preda allo stress a causa di questa. Ma la motivazione che è stata addotta per ridurre la pena dei due colleghi suona forse come ancora più assurda: secondo il giudice, il loro reato deriva da una situazione di particolare difficoltà per loro nel rendere dichiarazioni che potessero incriminare i colleghi. Peccato che, come affermato dal pubblico ministero Böhler, il reato di intralcio alla giustizia nell'esercizio delle proprie funzioni consiste proprio in questo e anzi dovrebbe essere aggravato dall'abuso di ufficio, dal momento che la loro professione consisterebbe proprio nel contrastare le attività criminose. Non è stata ordinata nemmeno la sospensione dal servizio per i due agenti. Se da un lato, quindi, si può valutare positivamente il fatto che tutti e tre gli imputati siano stati giudicati colpevoli, dall'altro non si può fare a meno di notare un'ennesima copertura e “tacita accondiscendenza” nei confronti degli agenti di polizia accusati e condannati per un reato che, nel caso non si indossi una divisa, può essere punito con vari anni di reclusione, nel caso non si indossi una divisa. Addirittura quelli che dovrebbero essere considerati elementi aggravanti per l'azione criminosa degli imputati si trasformano in fattori scriminanti capaci di attenuare la pena. Rimane il paradosso di doversi sentire sollevati dal fatto che almeno è stato pronunciato un verdetto di colpevolezza, cosa assai rara quando l'indagato appartiene allo stesso corpo che conduce le indagini e magari fino al giorno prima si ritrova a lavorare alla stessa scrivania. Soprattuto quando è la legge, attraverso la parola di un giudice, a sancire che in questi casi è legittimo aspettarsi che ci siano delle difficoltà “emotive” a perseguire la verità. Come (quasi) sempre, in questi casi la giustizia finisce col prendersi gioco delle vittime e dei loro cari, insabbiando le prove, rallentando le indagini, fornendo ricostruzioni completamente falsificate e gettando fango sull'immagine del morto di turno, sempre preoccupandosi di proteggere i propri servitori anche quando si trasformano in carnefici.