La Legge è uguale per (quasi) tutti, storie di omicidi in divisa: Cucchi e Eliantonio
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Inizia qui il nostro "viaggio" attraverso alcuni dei casi che hanno portato alla morte le persone finite nelle mani dei garanti della giustizia: le Forze dell'ordine. Dopo Riccardo Magherini, restiamo in Italia e raccontiamo la storia di Stefano Cucchi e Manuel Eliantonio. Ma soprattutto vogliamo raccontarvi come sono finite le loro storie.
Parte II, continua
In quello che viene definito il Belpaese sono numerosi gli individui che hanno perso la vita dopo essere venuti a contatto con le Forze dell'ordine. Molti di questi episodi si sono verificati negli “anni di piombo” – negli anni '70 ed i primi anni '80 caratterizzati da forti tensioni sociali –, tuttavia anche in anni più recenti si contano diverse vittime legate alla divisa degli agenti di pubblica sicurezza. Alcune di queste storie hanno avuto una visibilità ed una copertura mediatica notevole, attirando l'interesse dell'opinione pubblica. Non tutte però hanno questa “fortuna”, altre volte i nomi rimangono nell'oblio.
Il caso di Stefano Cucchi
Stefano Cucchi è deceduto il 22 ottobre 2009, mentre si trovava in custodia cautelare presso il carcere romano di Regina Coeli. Una settimana prima il 31enne era stato perquisito dai Carabinieri che gli avevano trovato addosso quantità massicce di droga (cocaina e marijuana) ed era stato processato per direttissima il giorno seguente. In attesa di una nuova udienza, il giudice decide che deve rimanere in carcere anche se il ragazzo mostra già ematomi sul viso. Ma le sue condizioni peggiorano, tanto da essere visitato all'Ospedale Fatebenefratelli dove gli vengono riscontrate lesioni alle gambe, una frattura alla mascella, un'emorragia alla vescica e due fratture della colonna vertebrale. La richiesta di ricovero viene ignorata e la situazione precipita fino alla sua morte, avvenuta all'Ospedale Sandro Pertini: Cucchi era arrivato a pesare solamente 37 chili.
Le indagini
Le indagini preliminari hanno constatato che la morte di Stefano è da imputare ai traumi conseguenti le percosse, chiaramente visibili sul suo corpo nonostante il personale carcerario abbia negato con forza di aver esercitato violenza sul ragazzo. Questi segni e le numerose testimonianze dei detenuti del carcere, che dichiarano di aver visto o sentito Cucchi colpito violentemente dalle guardie, hanno portato la Procura di Roma a contestare il reato di omicidio colposo a Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponnetti (tre medici del Pertini che avrebbero dovuto curare Stefano) e quello di omicidio preterintenzionale a Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici (tre agenti di Polizia penitenziaria che lo avevano in custodia).
Cucchi: com'è andata a finire
Nel procedimento si affiancheranno altri imputati, ma la sentenza di primo grado del 5 giugno 2013 porta alla condanna di quattro medici dell'ospedale (un anno e quattro mesi di reclusione) e del primario (due anni) per omicidio colposo, mentre assolve tutti gli altri, sei tra infermieri e guardie penitenziarie, in quanto non riscontra un nesso tra il loro operato e la morte del giovane romano.
Questa sentenza, già deludente agli occhi dell'opinione pubblica, peggiora – come spesso accade in questo Paese – con il secondo grado di giudizio: infatti nel processo d'Appello del 31 ottobre 2014 tutti gli indagati, inclusi i medici, vengono assolti da ogni capo d'imputazione. Quel corpo martoriato e pieno di lividi, esposto agli occhi di tutto il Paese, resta ora senza una speranza di giustizia Il nome di Stefano Cucchi finisce tra quelli dei tanti misteri italiani, a cui le istituzioni non hanno voluto dare una risposta per non assumersi le proprie responsabilità.
Ilaria Cucchi, sorella di Stefano: "Non mi fido più di nessuno" (DiMartedì - La7, 4 novembre 2014)
Il caso di Manuel Eliantonio
Un altra vicenda, assai meno nota rispetto a Stefano Cucchi, è quella di Manuel Eliantonio, ventiduenne di Piossasco, Torino. La sera del 23 dicembre 2007, insieme ad altri amici, il giovane viene fermato dalla Polizia Stradale sull'autostrada Torino-Savona e trovato positivo alle analisi tossicologiche. Manuel reagisce al fermo e tenta addirittura la fuga, senza successo dal momento che è subito fermato e portato alla caserma di Savona. Resterà nella città ligure qui fino al 16 gennaio 2008, quando ottiene gli arresti domiciliari in attesa del processo. Manuel però non rispetta gli obblighi di dimora e finisce di nuovo in carcere dove, qualche mese dopo, riceve il verdetto che lo condanna per resistenza a pubblico ufficiale a 5 mesi e 10 giorni di reclusione. I contatti con i familiari sono sporadici, ma è in una di queste occasioni – prima con la nonna al telefono e poi con la madre attraverso una lettera – che Manuel denuncia le violenze regolarmente subite ad opera delle guardie del carcere di Marassi, a Genova, dove morirà la notte del 25 luglio 2008.
Due versioni diverse
Il medico incaricato di stilare il suo certificato di morte dichiarerà che il decesso è da ricondurre ad una “dinamica non definita ed una patologia non identificata”, tanto che solo nei giorni successivi si apprende la notizia che Manuel sarebbe morto a causa di un'inalazione di gas butano, spesso usato dai detenuti per stordirsi e contenuto nel fornellino nella sua cella. Molti organi di informazione avallano questa ricostruzione, basandosi sulla dipendenza da cocaina che affliggeva Eliantonio, senza prestare attenzione alle dichiarazioni della madre e alle fotografie che fin da subito dimostrano chiari segni di ematomi e percosse. “Ho trovato mio figlio con una maglietta non sua, che gli stava molto piccola”, affermò la signora Eliantonio nei giorni successivi, “era completamente coperto di lividi su tutto il corpo, con delle chiare tracce di sangue che dal naso salivano verso la fronte e i capelli”. “Non mi sono mai stati restituiti i vestiti che indossava mentre moriva,” racconta ancora la donna, “la pecca di mio figlio era la cannabis e la cocaina, ma era un buono, non faceva male a nessuno. Doveva essere curato e invece me l’hanno ammazzato. I giornali hanno scritto che si è ammazzato da solo col butano, ma lui aveva il terrore del gas da quando aveva 6 anni. È l’unica cosa che lo terrorizzava”.
Eliantonio: com'è andata a finire
In questo caso un procedimento giudiziario non è mai stato nemmeno aperto. Ufficialmente la morte di questo ragazzo di 22 anni continua a non avere né un perché né una risposta, nonostante i tanti appelli sia della famiglia sia della società civile. Appelli ovviamente inascoltati e caduti nel vuoto.