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La generazione Z, il COVID-19 e il bisogno di socialità

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Cosa ci dicono i dati sull'utilizzo dei social media durante il lockdown del COVID-19? La Generazione Z sarà in grado, dopo il prevalere in questi mesi delle community virtuali, di reintegrarsi nella vita socialmente condivisa anche dai Millennials, dalla Generazione X e dai Baby Boomer?

Sono passati poco più di tre mesi da quando, il 9 marzo scorso, il Presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte ha annunciato il lockdown in tutta Italia per contrastare e contenere l’espansione del COVID-19, un virus tanto invisibile quanto letale. Da quel momento in poi, le vite degli italiani, costretti a rimanere nelle loro case per le direttive ricevute, sono cambiate. Chiunque si è dovuto adeguare a un nuova realtà e le abitudini delle persone sono cambiate. Anche oggi che il lockdown è terminato.

I dati acquisiti tramite l’analisi periodica Digital 2020, il report annuale a cura di We Are Social, realizzato in collaborazione con Hootsuite (relativa al mese di aprile 2020), hanno dimostrato come, proprio in questi mesi - a seguito dell’adattamento nel campo delle relazioni e dell’utilizzo delle piattaforme digitali -, ci sia stato un netto incremento dell’utilizzo dei social network al livello globale, con un aumento dell'8,7 per cento rispetto ad aprile del 2019. Più nel dettaglio, nel mese di aprile 2020, gli utenti attivi sono stati 3,81 miliardi. Inoltre il 23 per cento degli intervistati ha sostenuto di aver incrementato l’uso rispetto al pre-lockdown, mentre il 24 per cento passa molto più tempo su app di messaggistica.

Per quanto riguarda l’Italia, il 45 per cento degli utenti ha dichiarato di aver fatto un maggiore uso dei social network. In particolare, è il paese che ha fatto più affidamento su video chiamate collettive tramite Facebook (a marzo, +1000 per cento). E con riferimento allo stesso social network, il tempo trascorso sull’app è aumentato del 70 per cento rispetto al mese di marzo dell’anno precedente.

Come siamo arrivati fin qua: il bisogno di socialità da Aristotele a Piaget

Insomma, i dati hanno reso noto ed evidenziato ulteriormente come attualmente i social network (rete sociale fatta da individui connessi tra loro grazie a legami sociali, tendenzialmente lavorativi, familiari o motivati da interessi comuni, ma anche per conoscenza casuale) ricoprano una posizione fondamentale all’interno delle vite degli individui. I social sono l'unico strumento che ha permesso di mantenere vive le relazioni sociali, altrimenti perdute a causa delle misure di “distanziamento sociale” decretate dal Governo.

La necessità di soddisfare il nostro bisogno di contatto con l’altro è spiegata anche dal filosofo greco Aristotele nella sua Politica. Il teorico definisce l’uomo come un animale sociale in quanto tende ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società. Inoltre, nelle epoche successive, molte ricerche scientifiche hanno dimostrato che l’uomo non riesce ad acquisire i tratti tipici della natura umana se isolato e privato della presenza altrui. Piaget (1896 - 1980), uno psicologo e pedagogo svizzero, considera l'organismo umano come un sistema aperto, in costante interazione con l’ambiente circostante che, attraverso processi di assimilazione (modo in cui un organismo affronta uno stimolo proveniente dall’ambiente in termini di organizzazione attuale) e accomodamento (una modifica dell’organizzazione attuale in risposta alle richieste dell’ambiente circostante), riesce ad adattarsi continuamente ai cambiamenti. In un certo senso, quindi, gli esseri umani, per sopperire alla mancanza di socialità e di contatto con l’esterno, hanno dovuto spostare l’attenzione verso l’unico strumento che permettesse di tenere in vita il bisogno di socialità.

A differenza delle condizioni in cui Aristotele e Piaget svilupparono le loro teorie, viviamo in un mondo completamente interconnesso e globalizzato, in cui è possibile “essere”, nello stesso momento, in vari luoghi e mantenere i contatti con persone che stanno dall'altra parte del mondo, surclassando gli ostacoli spazio-temporali. Si potrebbe dire che il nostro modo di stare insieme nel tempo sia cambiato. Dalla percezione dell’altro attraverso la presenza fisica e l’interazione - in un dato momento e luogo fisico -, siamo passati, con la nascita dei social network nel 1997 con Sixdegrees (chiuso nel 2001 dopo essere stato venduto nel 2000 per la cifra di 125 milioni di dollari), a un nuovo tipo di socializzazione. Ovviamente, rispetto al 1997 le possibilità e le modalità di rimanere connessi si sono raddoppiate e sono cambiate. Nel 2020 non è soltanto possibile chattare con altri utenti, ma è anche possibile fare videochiamate di gruppo così da rendere l’interazione sempre più corporale virtualmente. Attualmente i social più rinomati e utilizzati in questo senso sono Facebook, Twitter, Whatsapp, Instagram, Houseparty, Zoom, Snapchat, Telegram: queste app hanno permesso a milioni di persone chiuse dentro casa di non rimanere sole durante il lockdown.

Nonostante ciò, è impossibile non porsi il seguente quesito: questi mezzi - che sono un veicolo di comunicazione e interazione -, possono sostituire il calore dell'abbraccio di un amico, il bacio di un fidanzato/a, una stretta di mano? O, come formulato dal sociologo contemporaneo Giuseppe Riva: possono essere un sostituto della genuinità, dell’originalità e della freschezza della relazione interpersonale vera e propria? È normale nutrire dubbi. In un certo senso, i social non sostituiranno mai la presenza fisica, eppure, hanno aiutato e continuano ad aiutare a rafforzare i rapporti sociali.

Le giovani generazioni e l’utilizzo dei social durante il COVID-19

Qualsiasi individuo, di qualsiasi fascia di età, ha dunque aumentato il proprio contatto, sebbene digitale, con l’esterno. Nonostante ci sia stato un incremento dell’utilizzo delle piattaforme relazionali anche da parte dei più anziani, la fascia di età che ha accentuato la propria dipendenza è proprio la fascia dei più giovani, dei cosiddetti appartenenti alla Generazione Z che racchiude tutti coloro nati tra la fine degli anni novanta e la metà degli anni 2000.

Infatti, sempre secondo l’analisi di We Are Social e Hootsuite di cui sopra, i più giovani hanno dichiarato di aver aumentato l’utilizzo dei social (58 per cento nella fascia dei 16-24, 50 per cento in quella 25-34), a fronte di un 33 per cento nella fascia d’età compresa tra i 45 ed i 64 anni, che hanno affermato di aver passato molto più tempo sulla rete, in generale.

Del resto, i “nuovi giovani” nascono in una dimensione temporale e spaziale in cui la tecnologia la fa da padrone. Ipsos Mori, società di ricerche di mercato nel Regno Unito, ha effettuato una ricerca sulla Generazione Z, appunto, cercando di definire le tendenze dei nuovi arrivati.

Lo studio Beyond Binary: new insights into the next generation, ha portato alla luce come l’ultima generazione sia la più connessa tra tutte a internet: a livello mondiale, il 71 per cento dei giovani tra i 15 e i 24 anni ha una presenza online, a differenza del resto della popolazione ferma al 48 per cento. Un’altra differenza con le precedenti generazioni ruota intorno all’utilizzo specifico del tempo passato online, con il 32 per cento del tempo speso a comunicare.

Lo scenario che emerge è una generazione di veri e propri nativi digitali, esposti sin dalla nascita a internet, ai social media e ai devices tecnologici, capaci di incrociare esperienze del mondo reale e del mondo virtuale. Proprio grazie a questa loro capacità innata hanno saputo affrontare meglio i disagi imposti dalle misure di lockdown.

Ma sarebbe un errore omologare tutti gli appartenenti alla Generazione Z. Nel 2009, la Fondazione Zancaner ha pubblicato lo studio Crescere, nato dalla necessità di capire un mondo che cambia molto rapidamente da un punto di vista tecnologico e sociale. La ricerca, incentrata proprio sui nativi digitali ha dimostrato che, in Italia, per quanto riguarda le relazioni affettive, nonostante i ragazzi siano sempre più immersi nel mondo dei social network, quasi nessuno ha intrapreso esperienze virtuali. E nel caso abbia conosciuto persone online, comunque non le reputa importanti nella propria vita.

Questo dato fa il paio con l’interrogativo di Riva e sottolinea il bisogno che anche i giovani hanno di relazioni reali e sincere, non basate soltanto su una connessione internet. In un articolo del 2016 per The Guardian, Emily Cherry della NSPCC, un’organizzazione non governativa del Regno Unito, ha scritto che si è diffusa l’idea che la generazione Z “sia la più felice di sempre perché ha la possibilità di essere continuamente connessa [...] ma tutta questa connettività li sta in realtà disconnettendo dalle amicizie vere e dall’opportunità di godersi il mondo insieme”.

Tornando al COVID-19, la verità probabilmente sta nel mezzo: i giovani hanno saputo affrontare con più facilità questa situazione perché già inseriti nel mondo digitale dei social network, nelle interazioni telematiche, nelle app di messaggistica e di video call.

Un interrogativo nuovo per il prossimo futuro potrebbe essere il seguente: e se il problema fosse la difficoltà di reinserimento nella vita reale di questi individui? Visto che è stata quella più connessa, la Generazione Z sarà in grado, dopo il prevalere in questi mesi delle community virtuali, di reintegrarsi in quelle della vita socialmente condivisa anche dai Millennials, dalla Generazione X e dai Baby Boomer?