La fatwa della Vecchia Europa
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I perfidi neocons sono stati scomunicati dai sacerdoti del pensiero unico europeo. Ma perché continuiamo a boicottare la rivoluzione democratica globale?
Falchi. Principi delle tenebre. Imperialisti. Militaristi. Guerrafondai. Cattivi. Cattivissimi. Non si ricordava da anni, in Europa, una “character assassination” simile a quella che si è tentata (e in buona misura realizzata, con rarissime eccezioni) in questi mesi nei confronti dei “neocons”. Tutti gli analisti più avvertiti sanno bene che tra gli esponenti di quell’area vi sono sensibilità e profili assai variegati, così come sanno che è operazione a dir poco arbitraria sovrapporli in tutto e per tutto alle politiche dell’amministrazione Bush. Ma l’“Europa ufficiale”, con la sua cultura, i suoi giornali, i suoi maîtres à penser (o, più spesso, “à dominer”), è stata implacabile: e così, senza alcuna possibilità di appello, è scattata la fatwa. Senza se e senza ma.
Antiamericanismo mascherato
Per capire fino in fondo cosa sia accaduto, servirebbe lo psicologo, prim’ancora che uno storico o un politologo. E’ noto che le radici comuniste, fasciste o clericali di una parte consistente della cultura europea inclinano naturaliter verso l’antiamericanismo, cioè contro una politica basata sulla libertà, la democrazia, l’individualismo. In questo senso, l’antiamericanismo è sempre di più un luogo d’incontro delle regressioni europee, delle spinte all’indietro.
Ma, nello stesso tempo, è chiaro che condurre -sic et simpliciter- una campagna “antiamericana” sarebbe stata cosa impresentabile, a maggior ragione dopo l’11 settembre (“Siamo tutti americani”, do you remember?).
Occorreva, allora, qualcosa che consentisse di poter fare una campagna antiamericana senza doverlo ammettere. I neocons si sono rivelati perfetti a questo scopo.
Guerra preventiva permanente
Ma veniamo al punto, al cuore delle “colpe” dei neocons. Per lustri, sulla linea tracciata da Kissinger, anche gli Stati Uniti avevano coltivato l’illusione dell’appeasement con i dittatori, e della mitica ricerca della “stabilità” (con i relativi costi sempre a carico degli oppressi di tutto il mondo, delle vittime dei peggiori regimi). Dopo l’11 settembre, le cose sono cambiate, e (soprattutto grazie ai “perfidi” neocons), il governo americano ha varato (con la parola d’ordine del “regime change”) un programma di politica estera opposto a quello proposto da Bush in campagna elettorale. La sua piattaforma del 2000 era semplicemente -e trucemente- isolazionista (“l’America pensi all’America”), e chi oggi la rimpiange “da sinistra” si allinea alla destra “paleoconservative” di Pat Buchanan, la destra più “destra”, che rimprovera proprio di avere scelto una sorta di “neowilsonismo”, o addirittura una versione repubblicana del tradizionale “interventismo democratico”.
E qui -non c’è dubbio-, si arriva al nodo, alla pietra dello scandalo della “guerra preventiva”. Ma la lapidazione in corso da mesi mi pare francamente un po’ farisaica: c’era forse la copertura dell’Onu per i bombardamenti clintoniani in Iraq o per la missione della Nato in Kosovo? Dov’erano -allora- tutti quelli che oggi si stracciano le vesti? Perché non parlarono?
Il punto, allora, è un altro. Io, da radicale, sono favorevole non solo alla guerra preventiva, ma ad una vera e propria “guerra preventiva permanente”, ad una continua opera di destabilizzazione delle dittature, all’elevazione del “regime change” ad “alfa e omega” della nuova politica internazionale da costruire.
Per un’Organizzazione Mondiale della Democrazia
Il problema è che i radicali credono all’adozione di altri tre strumenti rispetto alla carta militare tradizionale privilegiata da una parte ancora consistente dei teorici neocons.
Il primo è quello di smettere di finanziare i dittatori: l’Occidente continua a stipulare accordi di cooperazione che prevedono clausole sui diritti umani, che però troppo spesso non vengono rispettate.
Il secondo è l’uso sistematico di quelle che noi radicali chiamiamo “bombe dell’informazione”. Occorre un sistema, una rete radiotelevisiva globale, che consenta ai dissidenti di ogni regime di potersi conquistare la propria strada verso la libertà e la democrazia.
Il terzo è quello -più strutturale- dell’Organizzazione Mondiale della Democrazia: occorre, a cominciare dall’Onu, che le democrazie stiano insieme, lavorino insieme, facciano blocco, e premano affinché altri “entrino nel club”. Dopo avere contribuito alla nascita del Tribunale penale internazionale permanente, questa è la nostra sfida per il prossimo decennio.
Se le cose stanno così, allora, non serve a nulla demonizzare chi ha i nostri stessi fini, ed è invece più utile spostare la discussione su un terreno più costruttivo: quello relativo agli strumenti più adatti per realizzare l’obiettivo strategico comune.
E’ necessario e possibile -insomma- rilanciare un’antica battaglia radicale: un netto “no” a vecchi e nuovi “kissingerismi”, e un chiaro “sì” alla promozione globale della democrazia, e al pieno dispiegarsi di quel diritto-dovere di ingerenza che Tony Blair ha coraggiosamente (quanto vanamente) cercato di riproporre ai leader progressisti di tutto il mondo.
E’ su questo (e sulla scelta di metodi che riducano al minimo l’esigenza del ricorso allo strumento militare, con il coefficiente di violenza che esso porta inevitabilmente con sé) che dovremo misurare le scelte future di Bush, e l’influenza che sapranno esercitare su di lui i “perfidi” (ma quanto necessari!) neocons.