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La democrazia ucraina parla turco a Yalta

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Viaggio tra i tartari d’Ucraina, minoranza deportata da Stalin e ancora discriminata. Che ora, dopo averlo sostenuto, teme Yushenko, il leader della rivoluzione arancione.

A Kiev si è festeggiato e si brinda ancora, dopo la vittoria di Yushenko e la partenza dei primi osservatori internazionali. Altrove in Ucraina la situazione è stata e resta molto più tesa. A Simferopol, in Crimea, i supporter di Yushenko parlano turco e non raggiungono il 20% della popolazione locale. Sono i discendenti dei tartari di Crimea, che nel 1944 ed in un solo giorno furono deportati da Stalin verso le repubbliche dell’Asia centrale, in particolare in Uzbekistan. Il 46% della popolazione morì nel corso del “trasferimento”. Per carpire l’ampiezza di quegli atti, si pensi che il purgatore di professione Lavrenty Beria –che aveva accumulato una certa esperienza nel settore genocidi nel corso degli anni Trenta–fece imbarcare tutti coloro che erano sfuggiti ai rastrellamenti su una bagnarola e li annegò nel punto più profondo del Mar di Azov. Nemmeno Nikita Krusciov permise ai tartari di tornare in Crimea e ristabilire una repubblica autonoma e la diaspora tartara, di nuovo dispersa tra le steppe come ai tempi dei Khan ha atteso il recentissimo 1991 e la caduta del comunismo per recuperare il “terreno perduto”, in una Crimea in cui i tartari sono ormai meno di 300.000 su 2 milioni di abitanti.

Crimea: i comunisti se ne vanno, i russi no

Solo che i comunisti se ne vanno, ma i russi restano. Oggi a Simferopol, Sebastopoli, Yalta e dintorni l’80% della popolazione è russofona e si sente molto più russa che ucraina. Alle bandiere arancioni dei tartari nella piazza centrale di Simferopol, la capitale della regione, si opponevano solo una ingessata statua di Lenin ed i tricolori della madre Russia: di bandiere ucraine nemmeno l’ombra. Ed i russi sono ovunque, quando ce n’è bisogno. Oltre alla base navale di Sabastopoli le forze militari russe dispongono di una decina di postazioni extraterritoriali nell’entroterra. Per cui in Crimea non c’è porta che non possa essere varcata ed azione che non possa essere compiuta dalle forze speciali e di intelligence del Cremlino.

Dal 1991 i tartari, senza alcuna velleità secessionista, si sono battuti per difendere la loro lingua turcofona e proteggere un islam moderato di stampo sufi dalle infiltrazioni waabite, che Mosca e Kiev hanno spesso strumentalizzato e, cinicamente, favorito. Hanno portato il loro caso all’attenzione internazionale diventando membri dell’UNPO, l’organizzazione non governativa che rappresenta i popoli non rappresentati, e denunciato la continuità del sistema Kuchma, l’ormai ex presidente ucraino, con la “scarsa tutela” delle minoranze tipica dell’Unione Sovietica.

Yushenko come Gorbaciov: l’incubo dei Tartari

Per loro Yushenko, leader della rivoluzione arancione e prossimo presidente della giovane democrazia ucraina, era una scelta obbligata. E dopo le elezioni del 26 dicembre, Nadir Bekir, membro dell’autogoverno dei tartari sin dal 1991, teme che l’eroe arancione si trasformi in Gorbaciov: “Adesso che l’Occidente considera Yushenko il campione del riformismo ucraino –ci ha dichiarato Bekir–, chi ci ascolterà se dovesse continuare la politica di sempre, di discriminazione nei confronti dei tartari?”. E tutti temono l’alibi perfetto per la cosiddetta comunità internazionale: “Tanto avete Yushenko adesso!”.

Ed il rischio esiste che gli accordi post-elettorali tra nuovi e vecchi potenti annacquino le potenzialità di rinnovamento che gli ucraini hanno chiamato “rivoluzione”. Quando i 12.000 osservatori internazionali saranno tutti a casa, sarà bene non smettere di osservare l’Ucraina e considerare casi come quello dei tartari come cartine di tornasole per le riforme promesse dal nuovo corso. Per evitare che Yushenko si trasformi in Gorbaciov o Eltsin e l’Ucraina, al di là delle apparenze, non si trasformi per nulla.