La crisi migratoria a Lesbo in 7 scatti
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La giornalista, Federica Tourn, e il fotografo, Stefano Stranges hanno seguito il dramma del nuovo sovraffollamento dei campi per profughi sull'isola di Lesbo. Ecco il resoconto della loro esperienza in prima persona corredato da 7 scatti fotografici. In partnership con QCodeMagazine.
L’hot spot, pensato per meno di tremila persone, è esploso come una scatola di tonno andato a male. 20mila persone occupano le colline di Moria, a Lesbo. Intanto, nel corso degli ultimi due mesi, il governo greco si è affannato a varare misure ancora più restrittive nel tentativo di scoraggiare nuovi arrivi: dighe galleggianti, centri chiusi nel centro dell’isola o nel nord della Grecia, deportazioni coatte in ottemperanza al patto che l’Europa ha firmato con la Turchia nel 2016.
Donne, bambini, anziani, malati sono ammassati a decine sotto tende gelide, immerse nel fango e nella spazzatura, senza luce e acqua corrente. Il cibo non basta per tutti e spesso è andato a male: le uova si sfarinano nella mano, i fagioli sono pieni di vermi. L’assistenza sanitaria, poi, è gravemente carente ed ora si teme anche lo spettro Coronavirus: a Mytilene, nel capoluogo, il 9 marzo si è registrata la prima persona ricoverata in terapia intensiva per Covid-19.
«Mio fratello è una testa calda, ingestibile come tutti i ragazzi della sua età ma non devo farmi togliere la custodia o rischia di venire ammazzato». Fatima, 24 anni, era una ginnasta professionista, oggi a Lesbo la sua preoccupazione principale è tenere il fratello adolescente fuori dai guai. Sono arrivati da soli dall’Afghanistan e lei, in quanto maggiorenne, è considerata la capofamiglia: «Moria è un posto terribile – racconta – ieri c’è stata una rissa proprio davanti alla mia tenda, la strada era piena di sangue». Ogni giorno è un incubo, assicura, in particolare nel Settore A, quello dei minori non accompagnati: «Quando siamo arrivati al campo, un giovane era appena stato ucciso». Il Settore A, la zona protetta dei minorenni, è in realtà un colabrodo in cui entra di tutto: droghe, alcol, adulti violenti.
Nel frattempo, i migranti che sono sbarcati, fradici e impauriti, sulle spiagge sassose vicine a Mytilene, si sono accampati sotto gli ulivi, con il vento che fischiava forte, la paura di essere aggrediti dalle bande di estrema destra che si aggirano per l’isola – l’Europa non è quello che avevano immaginato.
Perché si sono messi in viaggio? Appena hanno saputo che Erdogan apriva le frontiere, a fine febbraio, si sono messi in moto. Ma l’accoglienza è stata terribile. La Guardia costiera ha cercato di allontanarli in maniera violenta, mentre ancora oscillavano paurosamente fra le onde. Al porto, un siriano di Deir El Zor mi dice: «L’Europa è la cosa peggiore che ci potesse capitare».
Racconto di una repressione
Gli afgani di Moria manifestavano gridando “libertà” e protestando per le condizioni disumane nel campo. Era una mattina di sole d’inizio febbraio, lungo la strada per Mytilene l’aria di mare sapeva di primavera. In testa al corteo c’erano le donne con i bambini, dietro seguivano i ragazzi e gli uomini, pacifici, tranquilli, forti delle loro rivendicazioni: sicurezza, igiene, assistenza medica. Volevano essere ascoltati dalle autorità che li aveva cacciati in quel limbo senza una data di scadenza.
Alla prima curva hanno incontrato lo sbarramento della polizia in tenuta antisommossa, che li ha respinti violentemente lanciando gas urticanti. La folla ha avuto un momento di sbandamento ma presto il serpente si è ricomposto in una lunga fila che tentava - gli occhi rossi, le ciabatte ai piedi e i più piccoli in spalla - di raggiungere il capoluogo attraverso le colline. Gli agenti sono arrivati anche lì, con manganelli e lacrimogeni, incuranti dei feriti, delle donne in difficoltà, dei bambini spaventati.
È una tempesta
Mi arriva un messaggio dal campo di Moria: «Da ieri c’è una tempesta, ancora in corso ora, che ha causato danni a tantissime tende. Non c’è riscaldamento, non c’è niente. Qui è il vero inferno di cui avevo già letto nei libri ma non avevo mai visto prima; ora lo sto vedendo con i miei occhi e noi ci affondiamo dentro sempre di più». Waled, 36 anni, agronomo, dall’Afghanistan. A Moria dal 5 settembre 2019 con la moglie, un figlio di 12 anni e una bimba di 6. C’è soltanto una fontana per l’accampamento esterno e l’acqua arriva la sera per una mezzora. Le donne scendono e risalgono le colline per riempire le bottiglie ma non basta mai per tutti; anche lavare un piatto, due tazze, è complicato a Moria.
Quando cala il tramonto, poi, ci si chiude dentro le tende, aspettando in silenzio il mattino, gli occhi spalancati al buio. Andare a cercare un bagno è impossibile da sole, meglio rinunciare: tante, troppe sono state aggredite in fila davanti ai pericolanti e sudici wc. «Meglio stare male», mi dice F., lo sguardo basso per l’imbarazzo.