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La Commissione che voleva essere governo

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Il collegio guidato da Romano Prodi ha cercato di rafforzare il suo ruolo. Adesso, però, è tempo di bilanci.

“Uniti nella diversità” o “l’ultimo spenga la luce”? Gli strateghi della comunicazione comunitaria dovrebbero decidere di cambiare lo slogan dell’Ue. Almeno da quando sempre più membri della Commissione targata Prodi stanno tornando alla politica nazionale: Solbes in Spagna, Diamantopoulou in Grecia, Barnier in Francia… E Prodi? Il Presidente della Commissione, no. Resta saldo in sella. Nonostante quell’iperattivismo sulla scena politica italiana in quanto leader (ritrovato) del centrosinistra alle europee.

Quel protagonismo di Prodi…

Per la Commissione è quindi giunto il momento di un bilancio politico a tutto campo. E non solo perché l’esecutivo europeo ha iniziato un periodo di stand by che sarà interrotto solo in autunno, quando dovrà pronunciarsi sulla spinosissima questione dell’adesione della Turchia all’Ue. Ma anche perché nessun’altra Commissione ha avuto, rivendicato e ostentato tanto potere. Grazie all’evoluzione dei Trattati, al protagonismo di un politico di carriera come Prodi, e alla volontà di pesare – anche mediaticamente – nel dibattito pubblico. Basti pensare a quando, nel 2003, il Presidente della Commissione definì il Patto di Stabilità “stupido”, o alle fortissime personalità di un Pascal Lamy in politica commerciale o di un Mario Monti, diventato l’incubo di giganti americani come Microsoft o General Electric.

…di cui l’Ue aveva un tremendo bisogno

Ma, nell’ottica della democratizzazione delle istituzioni europee, questo atteggiamento è tutt’altro che negativo: contribuisce a dare visibilità ai governanti di un’Ue sempre più decisiva, a sottoporli al controllo mediatico e dell’Europarlamento, a incarnare quel principio di responsabilità – di accountability come dicono a Londra – di cui l’Unione ha tremendamente bisogno.

E’ per questo che café babel ha scelto, primo tra tutti i media, di lanciare il dibattito. Aperto e pluralista: com’è nel suo stile. Perché è criticando e applaudendo, vituperando e apprezzando chi ci governa che potremo colmare quel gap democratico che, altrimenti, rischierebbe di divenire una voragine.

Ma Penelope non tesse più

Certo, Prodi ha fallito nel suo tentativo di riformare la “governance” europea. Volontà, questa, già presente nel suo discorso programmatico del 2000 e poi tradotta in un progetto costituzionale, Penelope, che mirava a trasformare la Commissione in un vero e proprio esecutivo comunitario. Ma perché quest’idea non è passata? Il politico bolognese, certo, non è esente da colpe. Secondo un alto funzionario della Commissione – che ha preferito conservare l’anonimato – il testo fu presentato con assoluta mancanza di tatto: “il Presidente della Convenzione, Giscard d’Estaing, percepì la mossa di Prodi come un affronto personale”. E non se ne fece nulla. Non solo, la Commissione si oppose poi all’idea di una sua politicizzazione, restando ancorata al mito del “guardiano dei Trattati” super partes, cui è relegata dalla tradizione comunitaria.

E’ lì la contraddizione e l’insuccesso più grande del collegio dei commissari guidato, per cinque lunghi anni, da Romano Prodi: “gli anni più intensi della storia europea dal dopoguerra ad oggi” scriveva Nicola Dell’Arciprete su queste colonne. Anche grazie all’eredità di Maastricht: è lì che furono lanciati allargamento ed euro, i due storici risultati realizzati da questa Commissione. La Commissione Prodi ha egregiamente accompagnato lo sviluppo graduale dell’Ue. Ma non è riuscita a dare il necessario colpo di reni a delle istituzioni che adesso rischiano la paralisi. E’ un po’ poco per una Commissione che voleva essere “governo”.