La causa curda: terrorismo o rivoluzione?
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Una panoramica sulla storia del popolo curdo, sulle radici e le motivazioni della sua lotta, per provare a comprendere le frammentazioni odierne, il conflitto turco e la rivolta in Rojava.
La lotta curda in Medio Oriente viene spesso letta in modo molto semplicistico ora come lotta terrorista, ora come rivoluzione del bene. Non è né l’una né l’altra cosa, ma un fenomeno molto complesso, e per essere compreso richiede un approfondimento che risale almeno al secolo scorso.
Un unico popolo che parla lingue diverse, professa religioni diverse ed è minoranza in 4 Paesi
L’area abitata da una maggioranza curda (circa 25 milioni di persone) si estende tra Turchia, Siria, Iraq e Iran, e ha propaggini in tutto il Medio Oriente. I curdi sono sempre stati una importante minoranza in quattro stati che hanno avuto vicende storiche differenti, che a propria volta hanno influenzato la storia curda. Spesso in passato i curdi sono stati assimilati ai turchi in nome delle finalità assimilazioniste del nazionalismo turco; in realtà sono un popolo a sé, il cui principale elemento culturale di alterità rispetto ai turchi è quello linguistico (e la lingua è il principale elemento identitario di un popolo): infatti parlano una lingua indoeuropea, che non è imparentata né con il turco né con l’arabo. È un popolo dalla struttura tribale, le cui divisioni politiche riflettono quelle sociali: il popolo curdo non è un monolite. Al suo interno coesistono differenze linguistiche e religiose (sono principalmente sunniti di scuola shafy’i, molto tollerante, ma vi sono minoranze sciite e sincretiche), che non gli impediscono di riconoscersi come un unico popolo.
La questione curda, dalla Prima Guerra Mondiale agli anni ‘90
La questione curda nasce in Turchia alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando l’Impero Ottomano si sgretola e viene spartito tra le potenze europee. È la prima volta in cui viene ipotizzata la creazione di uno stato curdo e di uno stato armeno, e la prima di molte delusioni per curdi e armeni. Ataturk, nel fondare lo stato turco, cancella l’identità curda e fonda l’identità del paese su quella turca: mette in atto politiche assimilazioniste che proseguono ancora oggi. Risponde alle rivolte, represse nel sangue, con la famigerata legge sul reinsediamento che cerca di disperdere i curdi dal Kurdistan e redistribuire la popolazione.
Negli stessi anni anche la Siria mette in atto politiche assimilazioniste. Mantiene l’impostazione del mandato francese (voleva creare uno stato centralizzato basato sulle minoranze da cui i curdi furono estromessi perché considerati “inaffidabili”) e si definisce per Costituzione uno Stato arabo. Il falso censimento nella Jazira (1962) è la versione siriana della legge sul reinsediamento. La conflittualità tra curdi e arabi in Siria è aumentata tanto quanto sono aumentati questi episodi. L’appoggio degli stati confinanti influenza pesantemente il prosieguo delle rivolte curde in questi paesi. Negli anni '60 l’ideologia marxista e sovietica influenza molti partiti curdi di sinistra, e funge da nuova spinta politica, nel contesto della Guerra Fredda, che permette l’emergere di movimenti non solo politici ma anche orientati alla lotta armata. Il PKK è uno di questi: nasce con le contestazioni studentesche, prevale sulle altre formazioni curde in Turchia e nel 1984 prende le armi. Fino al 1999 combatte una guerra civile contro i turchi e i curdi urbanizzati e conservatori (gli stessi che appoggiarono Ataturk e votarono per Erdogan); quell’anno il suo leader, Abdullah Ocalan, viene arrestato e viene dichiarato il cessate il fuoco unilaterale. La lotta armata del PKK ha provocato una durissima e sanguinosa risposta dello stato turco in tutto il Kurdistan turco. Ha storicamente avuto l’appoggio della Siria (in termini di armi, ospitalità e addestramento dei vertici) contro la Turchia (nella NATO sin dalla nascita) - la stessa Siria che continua a mettere in atto politiche assimilazioniste internamente. Questi dettagli aiutano a spiegare le dinamiche odierne: quella curda è una storia di continua ambiguità.
L'Iraq invece è il paese in cui i curdi riescono a conquistare i maggiori successi, a far modificare brevemente la Costituzione e a instaurare gli unici precedenti storici di "Stati curdi" (1923 e 1946), guidati dai Barzani, la principale tribù del paese. Le guerre curde, con l’appoggio di Siria e Iran (che hanno tutto l’interesse a mettere in difficoltà l’Iraq), si protraggono per decenni. Sale poi al potere Saddam Hussein, che entra in guerra con l’Iran e colpisce duramente i curdi. Negli anni ’90 la guerra civile curda, scoppiata dopo la fine della prima Guerra del Golfo e le elezioni nel Kurdistan iracheno, porta alla divisione di fatto della regione tra Barzani e Tarabani, con dinamiche di alleanze molto variabili.
La frammentazione politica odierna e le guerre non dichiarate in Turchia e nel Rojava
L’Iran è il paese che fa meno notizia: per via dell’affinità tra curdo e farsi e della sua natura multietnica, i tentativi di assimilazione sono riusciti molto più facilmente, e ai curdi sono stati riconosciuti maggiori diritti. In Siria da 10 anni esistono 20 partiti curdi. In Iraq, Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, è riuscito a ottenere una buona autonomia ed è in continuo conflitto con Baghdad, soprattutto per questioni petrolifere, e ha interessi economici convergenti con la Turchia; questo spiega le forti tensioni tra i curdi iracheni e gli altri. In Turchia oggi spicca l’HDP di Dimirtas, erede di altri tentativi di partiti indipendenti, che si propone di andare al di là della base curda e di de-etnicizzarsi: porta avanti un’agenda politica marcatamente di sinistra e cerca di raccogliere la fascia di scontenti, protagonisti delle rivolte di Gezi. Ci è riuscito soprattutto nelle metropoli. Oggi il PKK non è più un’organizzazione marxista né separatista e gli obiettivi che persegue sono cambiati molto: chiede diritti che sono stati negati per anni (studiare la propria lingua, avere maggiore autonomia) e democrazia. Il processo di pace è iniziato ufficialmente nel marzo 2013, con la benedizione di Ocalan, che annuncia il cessate il fuoco. Ha però incontrato grossi ostacoli (si è inceppato sul ritiro del PKK in Iraq) ed è di fatto rimasto sulla carta. Anche se in misura molto minore rispetto a prima si continua a sparare, da entrambe le parti. Non si contano gli arresti indiscriminati tra civili e attivisti, contestatori urbani, che sono riusciti a prendere il controllo di interi quartieri (simpatizzanti del PKK, che oggi li accusa di sabotare il processo di pace con le manifestazioni per Kobane). Oggi queste zone contese costituiscono veri e propri scenari da guerra civile.
Anche in Siria, nel Rojava, si combatte una guerra non dichiarata. Lo YPG (alleato del PKK) controlla una parte del Kurdistan e combatte in prima linea contro l’ISIS. In Rojava vige un confederalismo democratico basato sulla democrazia diretta e su un’economia solidale ed ecologica ispirato agli scritti di Ocalan. Nel 2012 l’esercito di Assad si è ritirato e sono stati creati 3 cantoni (Jazire, Kobane e Afrin) multiculturali e multietnici. La questioni aperte sono moltissime. Per esempio: cosa succederebbe se la guerra dovesse terminare? È difficile da prevedere, ma la risposta dei ribelli di Kobane è quella di voler imporre un contratto sociale democratico in tutta la Siria. Recentemente Amnesty International e HRW hanno sollevato questioni legate alla giustizia e alla repressione di partiti politici minori in Rojava. Le accuse di Amnesty allo YPG non parlano di pulizia etnica (che è quello che invece vi ha letto Erdogan, e che è passato sui media), ma di crimini di guerra. Le deportazioni forzate di popolazioni arabe da alcuni villaggi accusati di avere appoggiato l’ISIS sarebbero legittime se giustificate da necessità militare (lo YPG sostiene che fosse così, Amnesty lo nega).
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