Kosovo, indifferenza al potere
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Anna CastellariMentre il 20 febbraio si aprono i negoziati Onu sul definitivo status del Kosovo, albanesi e serbi dimostrano di avere sempre posizioni inconciliabili: «indipendenza completa e immediata» per i primi, «semplice autonomia» per gli altri.
Gennaio 2006, Orahovac, villaggio nel Sud del Kosovo. Da sei anni e mezzo la vecchia barzelletta fa sorridere Rodoljub: «Vai in città stasera?» «Ne avrei voglia, ma ho qualche impedimento, vedremo domani». Questo giovane serbo di ventitré anni, che abita a meno di duecento metri dal centro della città di Orahovac, ci è andato solo «tre o quattro volte» dal 1999, data in cui la Minuk amministra la provincia del Kosovo, e comunque mai a piedi, sempre nella macchina anonima di una ong.
A Orahovac i serbi sono sempre stati una minoranza, ridotta oggi ai minimi termini. La città ha circa ventiduemila abitanti, tra cui cinquecento serbi. Erano duemila prima della guerra. Due milioni di abitanti vivono oggi in Kosovo: 90% albanesi, 5% serbi, più o meno diecimila in totale. Situato in una “cunetta” circondata da colline di vigneti, che hanno contribuito all’ottima fama del vino della regione, il centro città si esaurisce in una via principale, affiancata da case in costruzione che spuntano come funghi. Vicino alla collina il quartiere serbo offre le sue viuzze oblique, le sue vecchie costruzioni e un silenzio di ghiaccio. Dal basso del quartiere serbo non restano che delle bicocche scalcinate, lasciate dalle rivolte che nel 2004 si sollevarono in tutto il Kosovo. Rodoljub ama guardare la sua città dall’alto della collina, ove si gode una vista privilegiata su Orahovace, e indica i simboli dei suoi ricordi di adolescente: «Là c’è la mia scuola, Vuk Karadzic, che oggi ha un nome albanese, laggiù il grande campo da calcio dove giocavamo tutti insieme. Eravamo una squadra, quella di Orahovac».
«Dobbiamo convivere»
Nella parte albanese, invece, il clima è completamente diverso. Negozi, venditori di contrabbando, molti caffè e la piazza centrale con una grande moschea costruita dopo la guerra. «Volevamo dimostrare al mondo che qui c’è vita», dice Burgin, vent’anni. E per dimostrarlo lo fa con una passione: il rap, e col suo gruppo sogna d'incidere un album. Quando si affrontano i problemi delle condizioni di vita dei serbi della città, Burgin e i suoi amici dicono all’unisono di detestare la politica. Ma nelle menti degli albanesi di Orahovac echeggia la coscienza di un passato comune. Cosa rara in Kosovo, dove la maggioranza dei giovani parla il serbo, o l’orahovaziano, un dialetto che mescola serbo, albanese, turco e macedone. «Noi parliamo questa lingua perché abbiamo vissuto insieme», ricorda Nihad, un altro componente del gruppo, «ma dopo quello che è successo è difficile perdonare». Un altro ragazzo del gruppo dice, in inglese: «Serbs are so little» (i serbi sono così pochi), un’affermazione che raccoglie il consenso generale.
Raman Salja, professore di storia e direttore di una della scuole del centro di Orahovacm spiega che il disagio è, anzitutto, sociale. «L’indifferenza dei giovani si spiega perché qui non c’è lavoro, non ci sono prospettive, e sono già così inquieti di per se stessi che è dura preoccuparsi per gli altri. Compresi i serbi». Ma il professore è categorico: «Dobbiamo convivere, anche se i serbi non hanno ancora capito che sono diventati una minoranza. Non devono più guardare a Belgrado, ma sforzarsi di essere cittadini del Kosovo, al cento per cento». Una condizione necessaria alla «creazione di un Kosovo multietnico, con diritti uguali per serbi ed albanesi. Tutto però dipende dalla volontà dei serbi».
Un clima di tensione
Kaela Venuto, direttrice dell’ong tedesca Schüler Helfen Leben, è fermamente convinta che la riconciliazione debba passare attraverso i giovani. L’ong si è però vista costretta a chiudere due case di giovani distinti, una di parte albanese e l’altra di parte serba. Tuttavia ogni anno viene organizzata una sorta di raduno multietnico. In gennaio hanno vissuto insieme una ventina tra serbi, albanesi e rom per una settimana. Obiettivo: far durare le amicizie nate sulle piste da sci. «La settimana scorsa, spiega Kaela Venuto, «tre adolescenti serbi sono andati da soli, a piedi, a trovare i loro amici albanesi. Mai visti a Orahovac». Il prossimo fine settimana i partecipanti si ritroveranno ad una festa in uno dei tre bar serbi. Prima i genitori dovranno assistere ad una seduta di proiezioni fotografiche sulle vacanze in montagna. Ci sono in programma anche corsi di informatica multietnica, ma, sette anni dopo la fine della guerra, queste iniziative rimangono l’eccezione. A pochi giorni dall’apertura dei negoziati sullo statuto del Kosovo, condotti dall’ex Presidente finlandese Martti Ahtissari, la situazione sembra più precaria che mai. Ormai i serbi vivono in una sorta di rassegnazione che inquieta le vive forze locali. Per Zvezdan Moravcevic, giornalista locale, questa rassegnazione è sempre di più passività. «Chiedo l’aiuto di tutti perché il mio sito sulla vita quotidiana a Orahovac resti in piedi, ma non c’è niente o quasi, e mi ritrovo a fare tutto da solo, a titolo di beneficenza» confessa con tono sconsolato. Rodoljub assicura di essersi abituato alla situazione e di non avere alcun bisogno di andare nella parte albanese. «Onestamente, cosa andrei a fare lì? È questo il vero problema, non conosco nessuno e non ho nessun amico albanese. La paura resta dentro di noi, più forte di noi», aggiunge lo studente. Nenad, il suo vicino, pensa che oggi serbi e albanesi abbiano una sola cosa in comune: i tagli dell'elettricità. «Quando salta da noi, loro ce l'hanno, e viceversa. Ci si è abituati persino a questo».
Translated from Un Kosovo blindé par l’indifférence