Kobo: «Un artista non conta nulla, senza il suo pubblico»
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Veronica MontiDopo l'esordio nel 2016 con What's My Name, Kobo torna nel 2019 con un video registrato in Congo. Ai microfoni di Cafébabel l'artista belga fa cadere la "maschera " che ha indossato finora e ripercorre la sua traiettoria di vita: dalle origini fino al successo, dai banchi di scuola di Kinshasa (Capitale della Repubblica democratica del Congo) fino alle collaborazioni con Damso, a Bruxelles.
Cominciamo dall'inizio: cosa vuol dire passare da una facoltà di giurisprudenza alla pubblicazione di un grande disco musicale?
Credo che, a volte, la vita ci porti a fare delle scelte. C'è stato un periodo in cui ero totalmente immerso nello studio e non volevo saperne di fare musica a livello professionale. Preferivo starmene nel mio mood, prendermi la laurea. A quel tempo sognavo di tornare a Kinshasa. Poi ho avuto qualche problema economico, ho dovuto cercarmi un lavoro, guadagnarmi da vivere e via dicendo. Sono finito a fare uno stage non remunerato di sei mesi, ma non sono riuscito a organizzarmi bene. Credo che in quel momento, dentro di me, sia scattata una scintilla. Avevo già cominciato a scrivere testi e canzoni, ad andare un in studio a registrare. Ma fino ad allora la musica era stata solo un hobby. Tutto sommato, è stato un processo graduale, un continuo rimettersi in discussione. Eppure, alla fine, si deve pur prendere una direzione.
Quando hai iniziato a scrivere testi e musica?
Fin da ragazzo ho avuto un rapporto particolare con la scrittura. Alle scuole superiori ho studiato latino e filosofia. Quindi ho sviluppato una certa dimestichezza con le parole: l'etimologia, le declinazioni, ecc.. Mi è sempre piaciuto molto anche leggere, buttare giù nero su bianco le emozioni che provavo, tenere diari personali. La combinazione tra scrittura e musica mi ha fatto scoprire il potere delle parole, la possibilità di trasmettere le emozioni. Di solito, si pensa che la comunicazione equivalga al discutere, ma quando canti ti rendi conto di poter raggiungere persone a migliaia di chilometri di distanza. Del resto, è così che comprendi quanto sia importante quello che un artista comunica con l'arte.
«Dietro le quinte ti rendi conto che da solo non conti un granché»
La scena rap belga è stata più accessibile che in altri Paesi per te?
Non credo. Diciamo che inizialmente si trattava di un fenomeno underground. Poi, a un certo punto, il movimento ha cominciato a ottenere po' più di visibilità grazie ad artisti come Damso, Caballero e Jean Jass. Alcuni si sono fatti conoscere anche fuori dai confini nazionali. Per questo oggi abbiamo gli occhi puntati addosso. Metterei anche Stromae nella categoria del rap belga comunque. Per quanto mi riguarda, direi che ho semplicemente iniziato nel periodo giusto: i riflettori erano già accesi.
Vedere tutto questo fermento artistico ha giocato un ruolo nella tua scelta di fare musica?
Sì, penso che mi abbia dato un senso di fiducia. Mi sono detto che se ci arrivavano loro, potevo farcela anch'io. Per questo, ringrazio tutti questi artisti, dal primo all'ultimo.
In What’s my name, affermi che sei entrato in quello che definisci il rap game di soppiatto, da dietro le quinte: come hai trovato il tuo posto nell'ambiente?
Il dietro le quinte del mondo della musica è completamente diverso da quello che si vede pubblicamente. Davanti alle telecamere va in onda una specie di ego trip continuo. Il messaggio che deve passare a tutte le ore è: «Ho gli attributi, sono io il boss». Ma in realtà, c'è sempre un sacco di lavoro sporco da fare: bisogna saper gestire le relazioni, andare in studio con regolarità, mandare avanti il proprio progetto in maniera consapevole, ecc.. Contemporaneamente, si deve cercare di approfittare di tutte le occasioni che si presentano. E così, dietro le quinte, ti rendi conto che da solo, come artista, non conti un granché. È grazie agli altri, al pubblico, che ti fai conoscere. Sono le persone che ascoltano musica ogni giorno che creano un interesse intorno alla figura dell'artista. Senza il pubblico, un artista non è niente.
Ascoltando i tuoi pezzi, si percepisce una grande ambizione. Allo stesso tempo, trasmetti molta diffidenza verso il tuo ambiente professionale, la paura dell'oblio, ecc.. Non è così?
Sono sempre stato diviso tra il sentimento di riconoscenza e la voglia di progredire. Per esempio, sono contento che al pubblico sia piaciuto il mio album. Allo stesso tempo, va detto che, per il momento, i numeri sono relativamente buoni. Per intenderci: non è un lavoro che può ottenere il disco di platino. Il mio successo si basa ancora molto sulla riconoscenza delle singole persone. Di consequenza, c'è una parte di me che mi spinge a progredire, a dare di più. Ma sono abbastanza fiducioso per il futuro.
Non ti scopri mai del tutto nella tua musica, come nelle interviste. Parli molto delle tue emozioni, ma non della tua vita, del tuo percorso personale. C'è una ragione specifica?
Penso che sia dovuto al mio carattere. Sono una persona abbastanza riservata e solitaria. Ho bisogno di tempo per aprirmi. Penso ci sia anche un po' incoscienza in tutto questo. Come dire: credo ci sia un lato terapeutico nella musica il quale mi porta a esprimere quello che sento. Ma c'è anche una barriera costante perché, in fondo, ti rivolgi a persone che non conosci affatto. A volte si ha paura di dire troppo, ma credo che, passo dopo passo, ci si riveli sempre di più. Almeno questo è il mio progetto: del resto, non potevo dire tutto fin dall'inizio, altrimenti non avrei avuto molto da comunicare con il secondo album.
E la maschera che indossi? Continuerà a far parte del gioco?
Sì, continuerà a far parte della mia direzione artistica. Mi serve affinché possa trovare dei momenti di isolamento. In linea generale, penso che ci sarà sempre, anche se, in certe occasioni, dovrà cadere per creare un legame con le persone: il pubblico ha bisogno di dare un volto a tutto questo mistero.
E per quanto riguarda le tue origini, il Congo, l'Africa? Anche in merito a ciò sei molto riservato. Perché? Cambierai in futuro?
Al momento non ho ancora elaborato una riflessione a proposito. Quello che avrei voluto fare è trattare il tutto in maniera più artistica. Siamo riusciti a girare un video in Africa, ma avrei voluto coinvolgere il mio continente di origine anche da un punto di vista prettamente musicale, utilizzando sonorità africane. Spero di arrivarci gradualmente. Per il momento, mi concentro su quel che accade qui e ora.
«Non si deve dimenticare che la musica è svago, piacere e divertimento. Serve anche, appunto, a dimenticare un passato difficile che si ascolta la musica»
Dici che la tua scrittura è terapeutica, ma già in un titolo come "Au pays des droits de l’homme" ("Nel paese dei diritti dell'uomo", ndt.), colonna sonora del film Le Tueurs, si avverte un messaggio più impegnato. È forse un segno che ti darai a contenuti più politici?
In realtà si tratta solo di un equilibrio particolare. E penso che sia davvero legato ai miei studi. Nel sistema educativo belga vieni spinto a dare sempre un'opinione, ad avere uno sguardo critico su ciò che accade nella società. Di conseguenza, credo che sia un po' l'impronta di questa esperienza. Nell'arte c'è sempre una tendenza a trasmettere un messaggio, a creare consapevolezza, ad avere un'influenza positiva sulle persone. Credo sia importante. Ma non bisogna farsi prendere troppo la mano: non si deve dimenticare che la musica è svago, piacere e divertimento. Serve anche, appunto, a dimenticare un passato difficile.
Perché hai scelto di veicolare questo messaggio in particolare?
Mi era stato chiesto di scrivere un pezzo traendo ispirazione dal film. Ho cercato di spiegare perché nella vita, a volte, si prendono strade come la criminalità. A tratti succede semplicemente perché ci si perde, oppure, più semplicemente, perché si è giovani. Ma altre volte, è la realtà sociale che imprigiona le persone. Nel mio caso specifico, prima del successo, quello che sento di aver vissuto è uno stato di povertà. A un certo punto ti ritrovi su dei sentieri non proprio "puliti", ma per una ragione precisa. Ho cercato di spiegare tutto questo a modo mio, con il rap.
In uno dei tuoi pezzi affermi: «È tempo di reinvestire il benef' (abbrevazione per beneficio, ndr.) in Africa», senza aggiungere altro. Cosa vuol dire?
Ho delle idee idee in testa che vorrei realizzare, passo dopo passo. Quando guardiamo all'Africa, osserviamo problemi che conosciamo da tempo: la povertà educativa e materiale in particolare. Credo che soprattutto noi africani che siamo riusciti ad arrivare in Europa, a studiare, a cogliere delle opportunità, dobbiamo, a un certo punto, tornare e ricostruire qualcosa. Perché se attendiamo sempre una mossa da parte dei governi, dalla politica, si capisce che sarà dura. In questo senso, credo davvero nell'iniziativa del privato cittadino. Al momento, a modo mio, mi limito a mandare dei messaggi, per mobilitare le coscienze. Inoltre, attraverso l'ultimo video, ho avuto modo di dare visibilità a degli attori locali. Del resto, loro ci hanno aiutato nella direzione artistica: la scelta dei costumi, degli ornamenti, tutto è veramente made in Congo. È stata davvero una gran cosa perché si tratta di artisti che non hanno sempre la possibilità di partecipare a questo genere di esperienze. Per quanto mi riguarda, al momento penso di servirmi della musica per fare cose di questo tipo, in attesa di poter dare un contributo economico.
Hai intenzione di realizzare altri progetti in Congo?
Sì, mi piacerebbe molto. Ora però devo anche evitare che la mia figura di artista diventi qualcosa di troppo monotono e che non ruoti tutto intorno all'Africa. Come dicevo, vengo da un altro continente, ma sono cresciuto e vivo qui, in Europa. Ci vuole, come sempre, un buon equilibrio.
Foto di copertina : © Selene Alexa
Translated from Kobo : la douce ascension dans le rap belge