Juste la fin du monde : un'ordinaria domenica d'isteria familiare
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Xavier Dolan presenta il suo nuovo film, vince il suo nuovo premio, conquista il suo nuovo pubblico. Juste la fin du monde convince per le stesse caratteristiche che colpivano nei precedenti film e - prima che, forse, l'ingresso negli studi americani possa fare danni irreparabili - ci piace ricordarle con malcelata sorpresa.
Ormai due anni fa, inaugurai la rubrica CineBabel tessendo le lodi di Xavier Dolan come autore nascente affermatosi con Mommy. Ebbene ritorno a scrivere con piacere sul mio coetaneo canadese grazie alla visione del suo nuovo film, Juste la fin du monde. Non lo faccio perché adesso la comunità internazionale lo esalta apertamente (soprattutto in Francia) – l’ultima opera ha vinto anche lei, come preannunciavo due anni fa, un premio a Cannes, stavolta il Grand Prix Speciale della Giuria -, ma perché noto che i tratti d’autore che avevo commentato nel primo articolo sono nuovamente evidenziati e messi in valore in questo suo sesto lavoro.
Doveva essere un piccolo progetto di passaggio, un riempitivo professionale per non restare senza girare tra Mommy e la prima grande produzione americana, The Death and Life of John F. Donovan (prevista l’uscita per il 2017). Invece, Juste la fin du monde, tratto dall’omonima opera teatrale di Jean-Luc Lagarce, ha dimostrato un valore esponenziale ottenendo consensi positivi prima a Cannes e ora in tutti i cinema. Di un meno ampio respiro di Mommy, che al contrario allargava la narrazione a un contesto sociale visibile e complesso e a un racconto a più capitoli, Juste la fin du monde abbraccia una mezza giornata, in cui il giovane Louis (Gaspard Ulliel), dopo dodici anni di lontananza mai giustificata, decide di far visita alla famiglia per un pranzo domenicale in cui annuncerà la sua morte. Nel film non viene fatto cenno né alle ragioni di quest’ultima, né tantomeno agli anni trascorsi lontano o alle vite dei personaggi. Ciò che è messo al microscopio è piuttosto l’attrito di un incontro, la tensione di un momento di riunione, di retrouvailles, in cui il passato remoto tenta un varco per dare senso al presente. L’arrivo di Louis è inaspettato, nessuno si spiega il motivo della sua presenza improvvisa e tutti sembrano riprendere da dove si erano lasciati. La sorella (Léa Seydoux) è la più nostalgica e disadattata, il fratello (Vincent Cassel) il più nervoso e aggressivo, la moglie del fratello (Marion Cotillard) si ritrova innocentemente in mezzo alle dispute e la madre (Nathalie Baye) a mediare consapevolmente con finta disinvoltura. Le personalità di ognuno, ricadendo in vecchi e abituali ruoli deleteri, soffocano con le loro reazioni la possibilità di un vero dialogo durante tutta la giornata. L’incapacità di comunicazione - sfiorata da potenziali complicità, silenzi forzati, balbuzie reiterate, scontri frontali, tentativi di chiarimento - arriva al punto che Louis non riesce a confessare il motivo reale della visita. Cosa ha risvegliato e rimesso in gioco questo incontro? La parentesi domenicale si chiude con rinnovate false promesse e con un impegno inventato dal fratello per accelerare la fine delle ipocrisie. Louis lascia di nuovo la casa : “je dois partir”.
Dolan dà ai suoi film tutto se stesso e come ogni buon artista crea le opere a sua immagine. Per questa ragione parlo chiaramente d’autore e per questo ugualmente piace al pubblico : le esagerazioni e le manie, il clin d’oeil all’estetica pop, la tendenza a scivolare volentieri nella sequenza da clip musicale, l’attingere alla sua cultura anni 90 e a un repertorio musicale di brani celebri, tutto ciò fa parte di Dolan come persona e si proietta nei film con particolare vivacità e febbrile efficacia. In quanto attore dà priorità alla recitazione e, confrontandosi in Juste la fin du monde con un testo originariamente per il teatro, riesce a spremere il meglio degli interpreti (tra i più famosi attori francesi della scena internazionale), una sofferenza, un disagio e un’introspezione che derivano da un tocco sensibile e un’osservazione delle sfumature caratteriali dei personaggi. Grazia alla sua macchina da presa che sembra offrirci ogni emozione al microscopio e una regia accurata e focalizzata sul dettaglio, Dolan dilata ogni istante, isola le luci, i riflessi, gli sguardi e li eternizza in un contatto non raggiunto, nella timidezza di una parola non detta. L’uso massiccio di primi piani serve a cogliere ogni minima espressione degli attori e far “sentire” quasi sinesteticamente gli oggetti, la pelle, i silenzi, i ricordi.
Juste la fin du monde indaga poche ore di una domenica in famiglia, un’apparente normalità in cui convivono numerosi sentimenti contrastanti. Paura, speranza, illusione, nostalgia, pentimento, condanna, perdono prendono spazio nell’esile tessuto narrativo e imprigionano una famiglia. Tuttavia, se il “classico” tema dolaniano della libertà individuale nel rapporto interpersonale potrebbe riuscire pedante, drammatico e forse tragico, il film sa anche bilanciare i toni con una sempre presente vena comica, leggera ma mai spensierata. Una tendenza allo spettacolo nel senso più empatico della parola.