Josef Penninger, la scienza viene dall'Austria
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michela zanottiGenio della ricerca mondiale, il quarantunenne biologo austriaco Josef Penninger ci racconta la ricetta della scienza esatta tra talento, coraggio ed indipendenza finanziaria.
Otto e mezza del mattino, Caffé Schwarzenberg, Vienna. Josef Penninger ha scelto uno dei Kaffeehaus più tipici dell’impero austrungarico. Che conserva con stile il fascino ottocentesco un po’ rétro. Io non sono molto mattiniero, soprattutto il lunedì: ma il biologo, un po’ spettinato e molto sorridente, ha energia da vendere. Si tratta dello stesso slancio che l’ha condotto da un paesino di provincia austriaco alla testa dell’Imba, il prestigioso Istituto di Biologia Molecolare austriaco? «Piuttosto si tratta di una serie fortunata di coincidenze» dice sorridendo. «Sarei dovuto diventare medico di famiglia. Da piccolo non conoscevo nemmeno il lavoro di biologo». Si laurea ad Innsbruck in medicina con una tesi in immunologia. Poi incontra una canadese ad una fermata dell’autobus di Parigi e decide di tentare la sua sorte oltreoceano. «Dopo tre anni volevo tornare in Europa ma mi ripetevano tutti la stessa antifona: il mio campo di ricerca non ha alcun interesse» ricorda. Che fare? Rimane a Toronto per tredici anni, si sposa, diventa professore in immunologia e biofisica e padre di tre figli. Lavora all’Istituto di Ricerca anticancro di Ontario e scopre tra gli altri il gene responsabile dell’artrosi e di quasi tutte le malattie degenerative delle ossa, aprendo la strada ad un’infinità di applicazioni farmaceutiche. Così riceve una pioggia di premi e riconoscimenti. Dal Premio William E. Rawls, nel 1999, a ricompensa degli anni di ricerca contro il cancro, fino al raggiungimento della classifica dei “dieci scienziati più promettenti del mondo” stabilita dalla rivista Esquire nel 2002. Gli istituti di ricerca europei si stanno mangiando le mani.
Carta bianca
Questo fino a quando l’Accademia delle Scienze austriaca gli fa una proposta che lui non si lascia scappare: aprire un Istituto tutto suo. Così cerca di ricreare a Vienna lo spirito che l’ha accolto in Canada. «Vi chiamiamo per nome. Senza nessuna gerarchia idiota né titoli pomposi» spiega. Un’apertura e una libertà che mancano nel sistema universitario europeo così chiuso nella sua obsoleta gerarchia. Una grave mancanza. «Sono i giovani a cambiare le cose. La gloria deve andare a loro, non ai professori», si indigna. «Bisogna semplicemente lasciare ai buoni ricercatori una vera indipendenza intellettuale e finanziaria, e certamente le infrastrutture e il sostegno necessari». Una linea di condotta visibilmente efficace: appena due anni e mezzo dopo l’Imba diventa un’istituto tra i più prestigiosi del mondo. Alla sua squadra dobbiamo, per esempio, la scoperta dei meccanismi molecolari e il ruolo nelle infezioni del virus della Sars e di altre malattie polmonari acute come l’antrace o l’influenza dei polli.
Laboratorio di talenti europei
Il biologo si presta al gioco mediatico con grazia ed assume il ruolo di portavoce con entusiasmo: «Il cosiddetto “grande pubblico” è goloso di scienza. E la buona scienza è facile da capire perché semplice e quadrata. È come all’opera: se i musicisti non sono bravi gli si lanciano i pomodori. La comunicazione scientifica deve permettere al pubblico di fischiare i cattivi ricercatori».
I politici sono il bersaglio preferito di Peninger. Vuole convincerli infatti ad investire di più e meglio nella ricerca scientifica. Se Bruxelles rivede completamente il suo metodo, dice convinto, la scienza potrebbe anche diventare uno dei pilastri dell’integrazione europea. Così si augura che vengano date sovvenzioni molto più generose, ma ben distinte, per la ricerca pubblica e privata, e l’abbandono dei domini di ricerca prioritarie. «Nanotecnologie, biotecnologie. Noi di queste definizioni ce ne freghiamo. Bisogna semplicemente investire nei talenti e lasciarli lavorare. Ovunque siano». E così propone di riversare i fondi comuni dei Venticinque ai migliori ricercatori e ai migliori progetti, indipendentemente dalla loro provenienza. «E se la metà dei soldi va all’Inghilterra è perché lì che lavorano i migliori ricercatori, tanto peggio!» insiste.
Oasi di scienza
Un sistema meno consensuale e più competitivo permetterebbe all’Europa di trarre un abbondante profitto. «La ricerca è come un grande deserto con delle oasi d’acqua. La strategia buona è quella di impegnare delle persone che cerchino questi punti. E dare loro i mezzi per trovare le oasi. Se i piccoli istituti e i giganti industriali americani corrono allo stesso punto d’acqua, vince chi è più rapido!».
Nel suo lavoro quotidiano Penninger evita il più possibile i discorsi legati all’Unione Europea: «Siamo sempre molto felici di collaborare con i colleghi dell’Ue. Ma coordinare un progetto “no, grazie…” è un incubo amministrativo» si lamenta. Ma il ricercatore resta un europeista convinto: «Quello che è successo negli ultimi decenni è straordinario. Da bambino abitavo vicino alla frontiera con la Repubblica Ceca e non si poteva neanche mettere il naso dai nostri vicini. Ormai le frontiere sono cadute e abbiamo una moneta unica. Cresciamo tutti insieme!». E riconosce anche i meriti di programmi europei come l’Erasmus: «È importante che i ragazzi si rendano conto che il loro Paese non è il centro dell’universo e che ci sono gli stupidi e la gente in gamba dappertutto, qualsiasi sia la loro lingua o religione». La ricerca scientifica ignora d’altronde le origini geografiche da molto tempo. «In fondo, abbiamo tutti questo sentimento altruista di aiutare un giorno il nostro prossimo. È poco probabile, ma ci si può riuscire» conclude ridendo.
Translated from Josef Penninger, la science dans la peau