Jorge Semprún, il dovere della memoria: Buchenwald 65 anni dopo
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ElenaL’Europa di ieri e di oggi. Il sottotitolo del saggio ”Une tombe au creux des nuages” (“Una tomba nelle nubi”), lavoro presentato al Salone del libro di Parigi, il 29 marzo, da Jorge Semprún, è anche la storia della vita dell’ex deportato del campo di Buchenwald, uomo politico e scrittore di successo.
L’11 aprile del 2010, 65 anni dopo l’apertura del campo creato dai nazisti e in seguito riaperto dal regime sovietico, il pensiero di questo apolide lucido e perplesso, sul ruolo del dovere della memoria, immerge nuovamente gli europei di oggi nel cuore della loro storia.
Nessun rancore. Durante le conferenze “tra il 1986 e il 2005” rivolte a un pubblico giovane, curioso ed esigente, raccolte in “Une tombe au creux des nuages”, Jorge Semprún si serve tanto del suo ruolo di scrittore, per far rivivere l’impensabile del passato europeo, quanto del suo passato di uomo politico per pensare al futuro della gioventù europea.
«Egon W. Fleck e Edward A. Tenenbaum, due ebrei americani. I liberatori del campo di Buchenwald erano due ebrei americani di origine tedesca!»
L’11 aprile del 1945, con altri deportati del campo di Buchenwald, il giovane partigiano comunista di ventidue anni che era allora prese le armi e con gli altri insorti del campo vide finalmente le porte dell'inferno abbattersi: «ironia della Storia, - ricorda lo scrittore invitato il 28 marzo al Salone del Libro di Parigi dalla Fondazione Francia-Israele - i soldati americani si avventavano vittoriosamente su Weimar, avendo battuto e disperso la guarnigione di Buchenwald, e tornarono al campo solo il 16 aprile; ma solo due di loro vi entrarono. Egon W. Fleck e Edward A. Tenenbaum, due ebrei americani. I liberatori del campo di Buchenwald erano due ebrei americani di origine tedesca!». Ma la storia del campo di Buchenwald, situato a circa otto chilometri da Weimar, la città di Goethe, non si ferma con la disfatta nazista.
Buchenwald: campo nazista in seguito sovietico
«Nel giugno del 1945 gli ultimi deportati lasciarono il campo di sterminio», sembra concludere lo scrittore davanti al pubblico parigino. Ma riporta alla mente il fatto che durante il mese d’agosto i sovietici ne riaprirono le porte per rinchiudervi dentro ex nazisti e oppositori politici. Secondo i dati ufficiali sovietici, furono 28.455 le persone detenute all’interno di quello che divenne il “Campo speciale n.2”, aperto fino al gennaio del 1950. Le condizioni di vita, tra carestia e freddo, portarono alla morte di 7.113 persone, in seguito interrate in fosse comuni.
Fino alla caduta del blocco sovietico, l’unica memoria collettiva evocata nel “Memoriale nazionale dell’Esortazione e del Ricordo” eretto dal regime comunista tedesco a Buchenwald, fu quello del campo di concentramento nazista. La cosa peggiore fu che il governo ordinò di radere al suolo il campo, lasciando intatti solamente i forni crematori, l’edificio di entrata e le torri est e ovest, e fece piantare una foresta per mascherare le fosse comuni delle vittime del Campo speciale n.2. Oggi, a lato della foresta dove Goethe amava passeggiare, i giovani europei che visitano il campo con i loro professori di storia possono contemplare questa foresta artificiale, le cui radici s’immergono nelle fosse comuni del gulag che fu, e possono cercare di comprendere questa doppia memoria che ci lega al XX secolo.
Germania, l'epicentro del male?
Jorge Semprún ha trascorso due anni «vivendo senza volto», vedendo il suo corpo all’interno del campo «dimagrito ma vivo» (dal libro autobiografico “La scrittura o la vita”). Resta il fatto che, invece che fare di Buchenwald un mezzo per condannare in eterno la gioventù tedesca, Semprun lo porta ad esempio per trarne una riflessione ben più vasta: “così andrete come il fumo nell'aria/così avrete nelle nubi una tomba /chi vi giace non sta stretto (…) la morte è un maestro (che viene) dalla Germania” scriveva il poeta rumeno Paul Celan, citato da Jorge Semprun. «Là (durante il suo primo ritorno a Buchenwald, nel marzo del 1992), mi sono domandato se questa verso fosse una verità assoluta», affermava lo scrittore e sceneggiatore spagnolo durante la consegna del “Premio per la pace” assegnatogli dai librai tedeschi nel 1995. «Ovviamente no». Come? «Gli ebrei francesi perseguitati dal Governo di Vichy hanno conosciuto la morte come “un maestro venuto dalla Francia”. Mentre Varlam Chalamov (…) ci ha parlato della morte come “un maestro della Russia Sovietica”», continua Jorge Semprún durante una conferenza a Weimar nel 1995. Concludendo con: «la morte è un maestro dell’umanità». Queste parole, spiegate molte volte agli auditori tedeschi durante le conferenze tra il 1986 e il 2005, ripetute poi a Parigi per i curiosi del Salone del Libro 2010, invitano alla riconciliazione tra l’Europa di ieri e di oggi. Una riconciliazione basata sulla scommessa della consapevolezza.
I doveri della memoria(e)
Parole che evocano una coesistenza permanente tra male radicale e umanesimo, tra Buchenwald e il suo “opposto antinomico” Weimar, capitale della cultura tedesca, distante solamente otto chilometri. Sessantacinque anni dopo la liberazione del campo da parte dei due ebrei di origine tedesca, Buchenwald rimane «il cuore della memoria europea. Il popolo tedesco è l’unico a poter e dover tener conto delle due esperienze totalitarie del XX secolo: il nazismo e lo stalinismo». Ma i tedeschi non sono gli unici interessati: «il problema del popolo tedesco e della sua memoria storica riguarda tutti gli europei in maniera forte, si tratta di un tema scottante» diceva lo scrittore nel 1995. Dal 1992, il “Memoriale di Buchenwald” propone, in aggiunta a percorsi formativi pedagogici, laboratori di formazione che si basano particolarmente sull’esperienza del campo nazista ma anche sul «modo di affrontare Buchenwald, dai tempi della Rdt (Repubblica Democratica Tedesca) fino ad oggi». Per fare in modo che ci si alla storia ed alla maniera in cui essa è stata scritta, per non trasformare il dovere della memoria in un rituale imposto senza dialogo, come accadde durante il regime sovietico. Il pericolo che incombe oggi sull’Europa non è il totalitarismo quanto l’accettazione della diversità, ma la vigilanza storica resta un obbligo, afferma lo spagnolo trilingue che dice di sentirsi apolide. Citando il filosofo Husserl, durante una conferenza a Vienna nel 1935, lo scrittore dal viso solcato dalle rughe ma sempre lucido concluse: «il più grande pericolo per l’Europa è la stanchezza».
Foto: Ardean R. Miller/Memorial di Buchenwald; Jorge Semprun di Emmanuel Haddad; Gérard RaphaëlAlgoet/Mémorial de Buchenwald; Claus Bach/Mémorial de Buchenwald; kaswenden/Flickr
Translated from Jorge Semprún: Buchenwald, 65 ans après