Johannesburg: quando l'uomo violenta la natura
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In Sudafrica nessuna delegazione di governo ha ritrattato le proprie posizioni. L’unico sconfitto è stato l’ambiente e l’umanità nel suo complesso, che della natura è parte integrante.
Gli scoppi d’acqua dell’Elba, Moldava e Danubio di quest’estate avrebbero dovuto suonare come campanelli d’allarme alle orecchie dei capi di governo presenti a Johannesburg, così non è stato.
All’inizio, dall’impegno che le NU stavano profondendo nel vertice sembrava che ci si fosse finalmente resi conto dell’attuale crisi ecologica, causata dall’indiscriminato comportamento umano che sconvolge i ritmi e gli equilibri della natura; invece, ora, sembra che il vertice non solo non abbia dato indicazioni per salvare la Terra, ma non sia riuscito neanche a salvare se stesso.
Quali risposte all’emergenza ambiente?
Il summit di Johannesburg si è aperto con un’allarmante previsione del WHO: se non si abbatteranno le emissioni nocive nelle aree densamente abitate nel 2020, solo in Europa, avremo 8.000.000 di morti in più per malattie respiratorie. Tale previsione diventa ancora più inquietante se teniamo presente che sono i bambini ad essere i più colpiti dalle malattie dovute all’ambiente malsano, perchè le loro vie respiratorie e i loro apparati digerenti e immunitari sono infinitamente più vulnerabili rispetto a quelli degli adulti. Nel 2001 l’inquinamento ha ucciso quasi 5.000.000 di bambini, un’ emorragia di giovani vite che condanna le speranze future, soprattutto dei paesi più poveri.
La novità di Johannesburg è stata solo l’incentivazione della partnership pubblico/privato per agevolare lo sviluppo di industrie pulite (vista di buon occhio soprattutto oltreoceano); ma l’UE ha giustamente ribadito che questi accordi commerciali non possono sostituire l’impegno dei governi, infatti, dopo il caso Enron, è già difficile fidarsi delle imprese nella gestione dei libri contabili, figuriamoci quando è in ballo la salvezza del Pianeta!
Il summit della ragion di stato
A Johannesburg, come a Rio de Janeiro dieci anni fa, il summit sulla Terra è condizionato da ragioni di geopolitica e dagli interessi nazionali più che dalla volontà di salvaguardare le sorti del pianeta.
L’Europa , avendo proposto di fissare entro il 2015 un obiettivo del 15% di energie rinnovabili sul totale della produzione mondiale, si è candidata come leader responsabile per una linea politica “verde”. Nonostante l’accresciuta sensibilità nei confronti dei problemi ambientali, dimostrata dai paesi europei, l’obiettivo proposto dai governi del vecchio continente è solo apparentemente progressista e legato a strategie energetiche obsolete, perché se dal concetto di fonti rinnovabili non venissero esclusi i grandi impianti idroelettrici e l’utilizzo di biomasse (legno ed altre culture energetiche), così come richiesto dalle organizzazioni ambientaliste, ci troveremo di fronte a un falso obiettivo, infatti secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia le fonti rinnovabili già coprono il 14% dell’energia globalmente prodotta, includendo, però, il 2,2% del grande idroelettrico e il 9,5 derivante dall’incenerimento delle biomasse tradizionali.
Gli Usa , primo consumatore mondiale di energia e primo paese per emissione di gas tossici, avendo un piano energetico nazionale basato su gas, petrolio e nucleare, hanno continuato il forte ostruzionismo già dimostrato a Kyoto, col risultato di eliminare dal documento finale del vertice ogni tipo di scadenza obbligatoria sulla riduzione di emissioni inquinanti.
Si sa: al di là dell’Atlantico è potentissima la lobby dell’industria carbonifera e petrolifera che appoggia Bush, così l’attuale presidente degli States, troppo impegnato a escogitare un sotterfugio per far legittimare dal diritto internazionale il concetto di guerra preventiva, non si è neanche presentato a Johannesburg (nemmeno il padre partecipò al summit di Rio) e Paula Dobriansky, rappresentante della delegazione statunitense, ha confermato che nel 2006 saranno 15 i miliardi di dollari che il governo americano finanzierà per lo sviluppo. Tale cifra, come valore assoluto, può sembrare abbastanza elevata, ma fatte le dovute proporzioni è appena lo 0,15% dell’attuale Pil statunitense, ossia un contributo 3 volte inferiore a quello dei paesi europei e la metà rispetto ai finanziamenti Usa di dieci anni fa.
Infine anche i paesi in via di sviluppo, non dichiaratamente petroliferi, non hanno accolto di buon grado la politica “ecologica” europea, perché continuano a sperare nella scoperta dell’oro nero per avviare uno sviluppo di qualunque tipo, sostenibile o meno.
Più in generale, sembra che per tutti e cinque i temi affrontati in Sudafrica –energia, acqua, agricoltura, salute e biodiversità - abbondino i condizionali e le esortazioni di buon comportamento senza l’imposizione di scadenze o sanzioni; come spesso accade nel diritto internazionale ci si è affidati alla volontarietà degli accordi e non alla loro obbligatorietà.
Un’occasione perduta
Credo che il summit di Johannesburg sarà ricordato come il momento storico della mancata svolta, infatti le parti in causa avrebbero potuto fare di più per indirizzare l’economia e la politica sulla strada delle sviluppo sostenibile, se non altro perchè i disastri ambientali e le vittime di un habitat malsano avrebbero dovuto favorire la nascita di una più matura e responsabile coscienza ambientale.
In Sudafrica nessuna delegazione di governo ha ritrattato le proprie posizioni, nessun Paese ha fatto marcia indietro, soprattutto per quanto riguarda la politica energetica; in definitiva l’unico sconfitto è stato l’ambiente e l’umanità nel suo complesso, che della natura è parte integrante.